
Nel caso di adozioni difficili la Comunità è una sconfitta per la famiglia? Cosa penserà la gente? Com’è la vita in Comunità? Il picco delle crisi è tra i 14 e i 18 anni.
I figli adottati o in affidamento hanno una probabilità superiore di entrare in Comunità? Ma forse le domande giuste sono: abbiamo fatto tutto il possibile? Può essere utile cercare un’altra strada? Chi può aiutarci?
Fabio è un papà speciale, come speciale è la sua famiglia composta di quattro persone: mamma, papà e due figli. In particolare suo figlio primogenito, ora adolescente, è arrivato in Italia quando aveva due anni.
Com’è iniziata l’adozione e che cosa è successo poi?
Georgi, il nostro primogenito, viene lasciato in un istituto bulgaro quando ha solo 5 mesi. Dopo un anno e mezzo arriva nella nostra famiglia, in Italia. Bambino con intelligenza superiore alla media, solare, simpatico e carismatico. Dopo sei mesi parla la nostra lingua meglio dei suoi coetanei italiani.
Con mia moglie e me nasce subito un attaccamento immediato. Cresce felice e sereno. E’ sempre stato piuttosto ribelle, ma l’infanzia è stata magnifica, pure con i compagni, prima alla materna poi alle elementari, attenti, rispettosi e veri amici. Alle medie non ha ritrovato a scuola nessuno dei ragazzi conosciuti. C’è stato un cambio radicale. La prima media è stata ancora nella norma. Il disagio è cominciato in seconda. E sono iniziate le bocciature. Respinto una volta, poi un’altra.
Da qui una rabbia crescente, risultato anche della sua storia di abbandono e della sua disabilità. Ecco appunto: la disabilità. Non una cosa di poco conto per un adolescente. Il suo braccio sinistro è menomato dalla nascita. Mio figlio lo nasconde indossando indumenti a maniche lunghe anche in piena estate.
Ha cominciato ad “autocurarsi” con l’uso di sostanze. Sempre più di frequente. Mi confesserà in seguito che dopo la prima canna, per due ore, non ha più pensato al suo braccio. Scarsissima igiene personale, poi, disordine interiore ed esteriore.
Quando è scattato l’allarme?
Ad un certo punto il ragazzo è fuori controllo. Non è possibile fermarlo e contenerlo fisicamente. Le vecchie buone amicizie sono state abbandonate, mentre cerca quelli che reputa simili a lui. Come dicevo, passaggio ad una nuova scuola, persi gli amici d’infanzia. Mia moglie ha chiesto alla Dirigente di affiancargli un paio di compagni in modo da creare un circolo virtuoso, ma la richiesta è caduta nel vento. Possiamo quindi, forse, parlare di isolamento sociale colmato con la frequentazione di soggetti poco raccomandabili, anch’essi allo sbando. Proprio in un momento, quello dell’adolescenza, in cui il gruppo dei pari è tutto.
Sembra indossi una “maschera”: fa vita da strada, inizia a rincasare tardi e poi a star fuori tutta la notte. Inizia a rubare in casa, prima piccole somme, poi sempre di più. Non funziona nulla. Sappiamo che ha fumato di tutto.
L’arrivo della sorellina, ora 10 anni, entrata in famiglia a 5 con adozione internazionale, con parecchi problemi psicologici, contribuisce non poco alla sua destabilizzazione. Intanto siamo già seguiti dai Servizi Sociali per la piccola, che ha subito maltrattamenti prima dell’adozione, e ci consultiamo anche per il grande, riportiamo tutto quello che succede. Georgi viene convocato più volte e otteniamo anche il supporto di un educatore domiciliare, ma a questo punto è troppo tardi. Troppo tardi perché ormai è nei giri di droga, da cui non si esce. Neppure con un educatore al fianco. La rabbia l’abbiamo sperimentata in famiglia. In quel periodo si sfoga in casa sfasciando porte e suppellettili, complici le crisi di astinenza. Lo denunciamo la prima volta per furto in casa, quando scompaiono i nostri oggetti più cari. Il tentativo è quello di fargli toccare il fondo perché rinsavisca, ma abbiamo paura. La mamma lo denuncia una seconda volta dopo essere finita al pronto soccorso per aver ricevuto una scarpa in faccia, lanciata con tutte le forze durante una di queste crisi.
Si decide con l’assistente sociale per la comunità. Intuiamo che i suoi comportamenti deviati sono profonde richieste di aiuto. E’ chiaro che nostro figlio non può farcela da solo.
Come avete individuato la struttura?
L’individuazione della struttura è di competenza dei Servizi Sociali. Dovrebbe essere scelta in base alle esigenze di ogni singola persona, ma spesso non è così. Si cerca un luogo con una disponibilità di posti. Punto. So che ci sono vari tipi comunità in Italia. Per Georgi viene scelta una comunità di Recupero Psicosociale a circa 70 km da casa.
Noi non abbiamo pagato alcuna retta sebbene nostro figlio abbia causato parecchi piccoli danni. Alcune volte abbiamo coperto noi la spesa, ma per puro spirito collaborativo. Quando un figlio entra in comunità, la responsabilità genitoriale può rimanere piena, oppure limitata o sospesa. Può esserci l’affidamento ai Servizi Sociali o la nomina di un tutore (pubblico o privato). Nel nostro caso i Servizi Sociali erano responsabili del minore.
Come funziona il progetto?
I ragazzi vanno a scuola, accompagnati sempre dagli operatori, poi possono praticare attività sportive musicali o ricreative fuori dalla comunità. La prima, in campagna aveva un grande prato e un ricovero che ospitava un vecchio cavallo e un asino. So che Georgi ha spalato parecchio letame.
Per la scuola, dopo aver ottenuto la licenza media, gli operatori hanno cercato di stimolarlo in varie direzioni, ora in un professionale, ora in un liceo, ora in un istituto tecnico. Ma poi le vicissitudini l’hanno portato a smettere e ricominciare. Adesso non sta frequentando alcuna scuola.
Gli incontri con i genitori sono decisi con l’equipe. Lo abbiamo rivisto, la prima volta dopo un mese, poi dopo due settimane. Stavamo insieme dalle 10 del mattino fino alle 16. Si andava assieme in trattoria nel paese vicino e si parlava, come si fa in famiglia. In quei momenti l’ho sentito figlio più che mai. Amabile. Adorabile sia con me che con mamma. Non stiamo facendo, invece, un percorso di famiglia, ma gli operatori parlano con noi periodicamente sulle tappe da rivedere o affrontare ancora.
Da quanto tempo vostro figlio è in comunità?
Nostro figlio è in comunità da più di due anni ormai. Nella prima comunità è rimasto poco più di due mesi. Non si trovava bene. Ci dava informazioni poco lusinghiere sui gestori. In lui si avvertiva ansia. Iniziò ad accumulare oggetti che poteva usare come armi da difesa. Iniziò a fare piccoli danni alla cartellonistica della struttura, fino a quando, una sera, dopo che gli educatori ebbero scoperto questi oggetti pericolosi, ebbe un furioso scontro verbale con la psicologa della struttura che lo attaccava senza cercare di capire tali comportamenti. Georgi, come risposta, uscì in cortile e iniziò a camminare senza più fermarsi, saltò la bassa staccionata e si avviò per i campi. Scomparve per una settimana. Abbiamo mobilitato tutti. La Comunità, i Carabinieri, abbiamo persino contattato un programma televisivo. Finché una sera, al rientro a casa, ce lo troviamo sulla rampa delle scale ben curato e ben vestito. Sapremo dopo che era stato ospite di una persona conosciuta.
Come vi siete sentiti quando vostro figlio è entrato in comunità?
Sinceramente abbiamo ricominciato a “respirare” e a dormire. Lo abbiamo visto al sicuro e abbiamo potuto rilassarci un po’. Molta malinconia, comunque. Un figlio è un figlio. Del giudizio altrui non ci è mai importato nulla. Abbiamo agito per il suo bene. Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto. La nonna, quello sì, non si dava pace: “Digli che gli voglio tanto bene”.
Attraverso queste esperienze ho avuto contatti con altre famiglie che sono ricorse alle comunità per contenere i figli. Ho riscontrato che la comunità aiuta. In una parte dei ragazzi è diminuita la rabbia e l’aggressività. In alcuni casi, però, le cose sono peggiorate. Questo succede quando il ragazzo non riconosce di avere un malessere e non accetta la terapia, anche psicologica.
Nel 2018 scrivevi un post dove dicevi: “Una comunità non fa miracoli, come l’amore non è sufficiente a curare una profonda ferita. (…) Tutto è dentro di loro, il blocco e la chiave”.
I limiti dei genitori sono anche quelli della Comunità. Arriva un momento, per i genitori, in cui ti dici “non ce la faccio più”. Poi invece, ritrovi le forze e vai avanti. Io ho imparato a dosarle le forze. Me ne sto fermo e osservo, ma è un’osservazione attiva. Ho imparato anche a tacere. Il nostro ruolo di genitori è esserci. Noi ci siamo stati e ci siamo in ogni occasione, di malattia, di problemi con la giustizia, di momenti meravigliosi trascorsi assieme. Georgi lo sa. Siamo dentro di lui, lo sento.
Dentro di lui c’è anche il blocco e la chiave. Come dicevo prima, la Comunità funziona se un ragazzo decide di esplorarsi dentro. E’ come la storia dei due lupi. In ciascuno di noi c’è il lupo buono e il lupo cattivo. Chi sopravviverà? Quello a cui dai più da mangiare.
Gli operatori?
Se posso fare degli appunti direi che all’interno delle Comunità c’è un cambio del personale troppo elevato. I ragazzi sono frastornati. Si affezionano ad una persona e questa subito dopo se ne va e ne arriva un’altra con cui ricominciare tutta daccapo la relazione. Abbiamo incontrato operatori in gamba, altri meno. Nella seconda Comunità hanno impostato buona parte del percorso sulla “fiducia”, ma ritengo che sia prematuro, per mio figlio, che ha bisogno prima di tutto di contenimento. Infatti, dopo la fiducia, fatalità, è rientrata la droga. Secondo me anche loro vanno a tentativi. Non esiste LA risposta, ma una possibilità.
Fabio, che cosa auguri a tuo figlio?
Vorrei vederlo libero.
Ringrazio di tutto cuore questo papà. Ci sono situazioni in cui anche gli adulti diventano impotenti. Fabio con sua moglie non mollano. Incontrano Georgi tutte le volte che possono. A me ha colpito molto come Fabio parla dei suoi due figli, sempre con grande affetto e rispetto della loro sofferenza. E mi viene in mente una vecchia canzone di Jovanotti che ho sentito di recente:
“Forse fa male eppure mi va / Di stare collegato / Di vivere di un fiato / Di stendermi sopra al burrone / Di guardare giù / La vertigine non è / Paura di cadere / Ma voglia di volare”.
Credo che Georgi abbia una gran voglia di volare. In un genitore, invece, rimane sempre quella domanda: “Chissà come sarebbe stato se …”.
Roberta Cellore
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