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04 Luglio, 2021

Aggressività e passività del bambino nella relazione adottiva

La rabbia può essere l’esito di un disagio, di un bisogno insoddisfatto, di una frustrazione e può avere significati diversi in relazione alla storia e all’età del bambino.
Giuseppina Facchi
Psicologa, psicodiagnosta, psicoterapeuta. Già responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Crema, ha lavorato nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

Uno dei problemi che i genitori possono trovarsi ad affrontare è quello dell’aggressività del figlio adottivo verso di loro, quando l’aspettativa sarebbe comprensibilmente diversa.

La rabbia è un sentimento comune, che ognuno di noi prova nella vita. È un’energia che può essere usata in modo costruttivo o distruttivo e può essere diretta all’esterno o all’interno, cioè può manifestarsi nelle relazioni con gli altri e nell’ambiente circostante, oppure può essere rivolta verso se stessi, per esempio, attraverso pensieri persecutori, senso di colpa o comportamenti autodistruttivi.

La rabbia può essere l’esito di un disagio, di un bisogno insoddisfatto, di una frustrazione e può avere significati diversi in relazione alla storia e all’età del bambino.

L’arrivo di un figlio: Nathan

Nathan, thailandese, adottato all’età di 2 anni, dopo aver trascorso la vita dalla nascita in un istituto del luogo, ha espresso da subito con il pianto e la rabbia il suo disagio e il rifiuto del nuovo ambiente. La sua difficoltà ad adattarsi ha messo in seria difficoltà i genitori, sbaragliando ogni loro aspettativa sul suo bisogno di essere accolto e sulla possibilità di soddisfarlo.

Questa situazione non è tra le più comuni, in quanto i genitori, nella maggior parte dei casi e tanto più se è piccolo, raccontano il loro primo incontro con il figlio come qualcosa di magico, come se lui stesse aspettando solo di trovare qualcuno pronto ad accoglierlo e quindi come un soggetto bisognoso di cure che si affida a loro. Frequentemente a questa fase si accompagna anche un’esperienza di totale adesione al nuovo contesto familiare, di accettazione della nuova condizione, fino al limite di un annullamento del bambino stesso attraverso una posizione di totale passività.

Considerando sempre un continuum tra queste due condizioni estreme, di totale rifiuto da un lato e di totale adesione dall’altro, si riscontrano una serie di altri comportamenti: per esempio il figlio può essere diffidente all’inizio e aver bisogno di qualche tempo per affidarsi e, sperimentato un ambiente sicuro, aprirsi con tutte le cautele del caso ad una nuova relazione.

Le prime difficoltà: rabbia e aggressività

Se la fase iniziale della relazione adottiva è contrassegnata da difficoltà del bambino al nuovo ambiente, è necessario che i genitori cerchino di comprendere il comportamento reattivo, dare un senso e un significato a ciò che succede, aiutando il figlio ad affrontare, seppur con gradualità, il cambiamento collegato alla nuova realtà. L’adozione a volte comporta una vera e propria rivoluzione rispetto a clima, odori, colori, cibo e voci e, tanto più se si è transitati da un Paese africano, orientale o sudamericano, le reazioni al cambiamento possono essere molto diverse. Ovviamente clima, odori, colori e voci non si possono facilmente modificare e ciò che si può fare, nel limite del possibile, è proteggere il bambino da un’esposizione massiccia a stimoli che lo disorganizzano.

Quando il bambino esprime un disagio o un rifiuto con pianto e rabbia, generalmente perché ha paura per ciò che sta accadendo, il genitore si attiva per favorire un suo adattamento al nuovo contesto. In queste situazioni viene messa a dura prova la resistenza del genitore che, se alla prima esperienza genitoriale e, come nella genitorialità biologica, deve fare i conti con la sua immagine di genitore ideale, che sa comprendere i bisogni del bambino ed è in grado di soddisfarli. Tutto ciò non è facile in quanto dopo un’attesa, più o meno lunga, il genitore passa dalla rappresentazione della sua relazione con il figlio ad una realtà complessa e a volte insidiosa. La posizione di genitore, inoltre, può essere debole, se la ferita prodotta dall’infertilità non si è ancora rimarginata e la difficoltà rispetto al comportamento del figlio può mettere a nudo la fragilità del ruolo e in discussione la sua legittimazione.

Bisogna tener conto che i genitori adottivi, anche se l’adozione è stata corredata da cartella sanitaria e da foto che documentano la vita del bambino dalla nascita fino al momento del loro incontro, non sempre hanno ricevuto informazioni sul reale comportamento del figlio e il più delle volte non hanno la possibilità di confrontarsi con qualcuno che si è occupato di lui prima di loro e quindi di collegare in modo meno fantasioso il comportamento di oggi con il passato recente.

Se il figlio ha vissuto in un istituto, ammesso che ci sia la possibilità di un contatto, dato per nulla scontato, il genitore con chi può parlare? con il responsabile o con l’educatore al telefono?  In quale lingua? Quante volte?

Tentativi ed errori, domande senza risposte?!

Il confronto con chi ha conosciuto il bambino nella maggior parte dei casi non avviene e il genitore si deve affidare alla sua pazienza, alla sua capacità di identificarsi con il figlio e per tentativi ed errori e/o attraverso il confronto con altri genitori o specialisti dell’adozione, trovare il modo più utile per approcciarsi a lui, riconoscere i suoi bisogni e soddisfarli. L’aspetto più difficile in queste circostanze è modulare la soddisfazione del bisogno con la necessità di porre dei limiti per evitare che il bambino tiranneggi il genitore con la sua onnipotenza tipicamente infantile.

Se possono costituire un problema dirompente le reazioni di rabbia e pianto, meno vistosi, ma altrettanto degni di interesse sono gli adattamenti troppo repentini da parte del bambino al nuovo ambiente.

Una storia affatto singolare: Anita

Anita, originaria del Perù, adottata all’età di quattro anni, dopo plurimi abbandoni, quando incontrò i suoi nuovi genitori manifestò una regressione significativa e si affidò quasi totalmente a loro, seguendoli come un’ombra. In famiglia venne adottato lo spagnolo, sua lingua d’origine, e lei ricominciò ad esprimersi verbalmente. Nei primi tempi fece qualche domanda sulla situazione precedente e sulle persone che aveva lasciato. Dopo qualche mese dall’arrivo in Italia ha cominciato a frequentare la scuola materna, a preferire la lingua italiana, ad esprimersi bene e a diventare più socievole e a misconoscere ogni aspetto della sua vita precedente. In sintonia con le caratteristiche di un sistema adottivo che non prevede alcuna continuità con la vita precedente, unitamente alla distanza dal Paese d’origine e alla difficoltà a mantenere un qualche rapporto con le persone del luogo, i genitori hanno accettato più o meno consapevolmente il bisogno della figlia di chiudere con il passato.

Una totale adesione al nuovo è frequente nell’esperienza adottiva ed è in parte sovrapponibile a ciò che succede nell’esperienza migratoria, in quanto condizione necessaria per adattarsi ad una realtà completamente diversa per clima, abitudini, ritmi, ambiente di vita familiare e affettiva. Questa modalità tuttavia non è priva di criticità se in una fase successiva compromette la possibilità di riprendere i fili della propria storia precedente. In particolare nella fase adolescenziale questo tipo di funzionamento diventa rischioso, perché ostacola la possibilità di un’integrazione delle diverse esperienze di vita ed i processi di identificazione.

Nella storia di Anita, oltre all’adesione al nuovo, la sua tendenza alla regressione ha messo in difficoltà i genitori nella loro funzione di porre limiti ai suoi bisogni di accudimento e di sicurezza e ha favorito l’idea che solo con loro era possibile vivere.

Quando il bambino arriva, come in questo caso, da situazioni di abbandono e da deprivazioni, il rischio è che accudimento e contenimento non vengano forniti in modo equilibrato, che la comprensione prevalga sul no affermato con autorevolezza e che si favorisca un senso di onnipotenza.

Una possibile via per gestire aggressività e rabbia nel bambino

Ho accennato a due storie diverse, diametralmente opposte, ma in qualche modo accomunate da un tratto comune, cioè caratterizzate dalla necessità di un ambiente emotivo in grado di modulare protezione-dipendenza e processo emancipativo, anche quando il bambino è molto piccolo e bisognoso di cure.

La coppia genitoriale, messa alla prova, deve cercare di mantenere un atteggiamento saldo, di accoglienza e di comprensione, ma anche di accettazione della realtà e dei limiti, che non possono essere superati o negati. Un fattore protettivo è dato dalla possibilità di creare un ambiente familiare sufficientemente forte, in grado di dare regole semplici e chiare, alle quali attenersi. Il sistema delle regole, non imposte in modo autoritario, ma giustificate e condivise (quando l’età e lo sviluppo lo permettono), favorisce l’accettazione di valori, norme e comportamenti socialmente adeguati.

Tale considerazione è estendibile a tutte le famiglie, ma in quelle adottive acquista maggiore pregnanza in quanto in esse operano dinamiche più complesse e articolate. A volte i genitori adottivi temono di non risultare sufficientemente amabili e inconsciamente o anche consapevolmente tendono a volere compensare i disagi e le sofferenze patite dal figlio in passato con atteggiamenti di eccessiva accondiscendenza. Ora, non si tratta di esercitare il ruolo genitoriale con sistemi di severità, ma un eccessivo lassismo (così come del resto l’estremo opposto) può comportare difficoltà nel sistema di autoregolazione, in particolare per quanto attiene al riconoscimento del limite e alla gestione dell’impulsività, e si può venire a consolidare un sistema di sicurezza interno fragile, incapace di reggere la frustrazione, l’attesa  e l’imprevisto.

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