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11 Aprile, 2021

Autismo e adozione. Non è azzurro, è celeste

La testimonianza di una mamma che ha messo a disposizione della scuola e dei suoi alunni le competenze acquisite con l’adozione di un bambino autistico. L’umanità che esce dall’esperienza di un’adozione o di un affido diventando bene sociale.
Simona Schenone
Docente di scuola secondaria e referente per l’adozione

Autismo e adozione

“Non è azzurro, è celeste”. Gli occhi di A. – cinque anni – mi guardano attenti, quegli occhi che anni dopo mi avrebbero detto non potevano fissare, avrebbero dovuto vagare su tutto tranne che su di me… Gli occhi che mi vedono per la prima volta. Mi guarda per vedere se la sua precisione, la sua scelta puntuale, maniacale di ogni singola parola mi infastidisce, o se viene ben accolta. E io lo guardo scegliendolo come figlio, senza alcuna esitazione.

La vita mi ha dato questa fortuna, di scegliermi un figlio. Dopo qualche mese che lui e suo padre ci conoscevamo, mi ha detto: “Ma lo sa la gente che ci sposiamo?”. Ecco, ci siamo sposati in tre, e lui è sempre stato parte di questo matrimonio e di questo amore.

Poi è venuto il tempo della burocrazia, l’adozione del figlio del proprio coniuge è forse più semplice ma comunque invasiva: se mio marito mi ha scelta come madre di cuore di suo figlio, per la legge non vale: occorre comunque fare domanda di adozione, passare il “vaglio” dei servizi sociali, del Tribunale dei minori, delle trascrizioni sull’atto di nascita. Ci vuole meno tempo, certo, un anno circa, qualcosa in più, forse. Ed è come partorirlo questo figlio, che è già tuo, che ti chiama mamma, ma non puoi fargli una giustificazione per un’assenza a scuola. Ma è passata, anche questa fatica. Per iniziarne un’altra…

Il bambino autistico e la scuola

A. è sempre stato un bambino allegro, cantava a squarciagola sin da piccolo, ricordo corse in macchina con lui in piedi, a braccia spalancate sul sedile dietro, che urla la sua felicità e la sua gioia di vivere. Poi la gioia è scomparsa, perduta dietro gli altri e quello che gli altri non capivano, perché sono loro i diversamente abili: quelli “normali” che non sanno capire, che non sanno di essere, che non sanno… La gioia è scomparsa con l’inizio della scuola, terreno paludoso per chi non si conforma alla massa, angoscia e incubo di ogni genitore con un figlio speciale… La scuola, però, è iniziata insieme al nostro matrimonio, e allora per me l’angoscia sembrava coincidere: ero io il problema, la fonte della sua tristezza, del suo spegnersi a poco a poco? Io che dovevo imparare ad amarlo? Amarlo era l’inizio o era la fine? Era un percorso o una meta?

Oggi che A. ha 20 anni non so ancora rispondere, ma so che il percorso l’abbiamo fatto insieme, la meta la raggiungeremo insieme, l’angoscia la nascondiamo insieme e il terreno paludoso è alle spalle, perché dopo mille fallimenti, abbiamo trovato una scuola dove tutti sono diversi, insieme. Ed è tornato felice, quasi sempre…

In terza elementare la sua maestra mi disse che secondo lei era discalculico. Sino a quel momento aveva avuto una pazienza infinita con questo bimbo lento e svagato, che non sapeva scrivere in corsivo, allacciarsi le scarpe o tenere un quaderno in ordine. Che non sapeva mettersi il cappotto, tirare una riga o contare i quadretti. Che scriveva spostandosi ogni volta un po’ più a destra (segno della sua speranza per il futuro) e non sapeva mettere in colonna. Che non ricordava una sola tabellina e odiava l’alfabeto. Ma che quando scriveva sembrava aver imparato dagli angeli.

Una bambina autistica nella mia classe

Iniziò per tutti il pellegrinaggio che solo noi mamme e papà di bimbi così sappiamo: era depresso, era colpa della perdita della sua prima mamma a soli tre mesi, era discalculico, era borderline, era tourettico… Io, intanto, guardando negli occhi la mia alunna E., che non ricambiava il mio sguardo, che portava coltelli a scuola per vendicarsi delle compagne, che scriveva anche lei come un angelo e – come un angelo e come A. – non aveva il senso del tempo: ho visto nella sua fatica la fatica del mio bambino triste, e ho fatto mia la sua diagnosi: autismo, asperger, disabile, fatica, dolore, solitudine.

L’autismo mi ha sempre “affascinato”. Sin dalla prima volta che ne ho sentito parlare, a circa 15 anni, ho voluto scoprirne di più. La vita (qualcuno direbbe insieme a me: il buon Dio), ti prepara con largo anticipo a ciò che ti vorrà un giorno sottrarre. A me ha dato questo interesse assurdo che mi ha sempre accompagnato. Per avere un senso solo a 45 anni.

Tanto ci è voluto perché leggessi negli occhi di mio figlio quello che avevo letto nei libri. Poco, però, perché i libri parlavano di mutismo, incapacità di comunicare, dondolii e silenzi, io invece avevo davanti a me un ragazzo (ormai) che non capiva gli scherzi, che non aveva amici, che parlava forbito ma non conosceva le metafore, i giochi di parole, le maledette tabelline. Un bimbo bello come il sole, che mi diceva mille volte al giorno: “Ti voglio bene, mamma”, ma che mi svegliava alle cinque del mattino per sapere qual era il nome di battesimo di Eisenehower.

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