La lunghezza temporale di certe esperienze di affido ha fatto nascere l’ipotesi, e talvolta la convinzione, che gli affidi a lungo termine possano tramutarsi in adozioni.
Tuttavia, per non incorrere in interpretazioni errate, è la stessa normativa italiana che si esprime in maniera chiara a tal proposito.
Il minore che va in adozione è un minore dichiarato “adottabile” in Italia o all’estero.
Il decreto di “adottabilità” viene emanato dal Tribunale quando vi sono le condizioni di “stato di abbandono” previste dalla legge, da parte della sua famiglia d’origine e non sia possibile porvi rimedio in tempi accettabilmente congrui.
Spesso vengono riferite, soprattutto dai media, notizie circa la presenza di molti bambini da adottare lasciati per anni in istituto nel nostro Paese. Viene inoltre sottolineata la necessità di dar corso, senza troppi impicci e lungaggini burocratiche, alle adozioni di questi bambini da parte delle molte coppie in attesa.
Nella mia esperienza e dai dati che ci vengono forniti dai Tribunali stessi, nelle comunità educative e famiglie affidatarie (ricordiamo che gli “istituti” in Italia non esistono più da anni), la maggioranza dei bambini accolti non ha un decreto di adottabilità, ma solo di collocamento etero familiare.
Il gran numero di bambini in comunità, fortunatamente, non è adottabile. Questo sta a significare che la loro situazione familiare non risulta così definitivamente compromessa da necessitare l’interruzione dei rapporti e la sostituzione irrevocabile della famiglia. Si tratta tuttavia di minori che potrebbero essere accolti in affidamento familiare.
Quindi, tornando all’ipotesi di una continuità, e di un passaggio da affido lungo a adozione, occorre evidenziare che non è un percorso previsto. Il bambino in affido non è adottabile.
Tuttavia, poiché la nostra organizzazione giuridica privilegia l’interesse del bambino (e non degli adulti) potrebbe verificarsi un caso in cui un minore in affidamento diventi adottabile, per cause connesse alla situazione della sua famiglia originaria.
Si tratta di situazioni eccezionali di cui è bene delimitare la frequenza (che è, appunto, rara).
Può invece, e più frequentemente, accadere che la situazione familiare di un minore in affido non riesca a raggiungere gli obiettivi di cambiamento che erano stati previsti. In questo caso, i genitori d’origine si sforzano per garantire una continuità di relazione e di affetto e anche una condivisione di responsabilità nella crescita del figlio.
Quando si verificano queste situazioni, l’accoglienza in affido si stabilizza, ma si cerca progressivamente di coinvolgere, con gradualità e sensibilità, anche i genitori d’origine.
I bambini e i ragazzi si trovano così ad avere due famiglie, delle quali riconoscono bene i diversi ruoli complementari nella loro crescita, spesso vivendole come una ricchezza, come la possibilità di “tenere insieme” i genitori da cui sono nati con quelli che si occupano di loro tutti i giorni.
E’ proprio per questo motivo che è necessaria una “squadra”, un team, con ruoli diversi, ma che si completano, si rispettano e si
rispecchiano, nel quale gli operatori sono parte terza che coordina, ascolta e guida.
Da affido ad adozione: la normativa sulla continuità affettiva
L’esperienza ci ha mostrato che nella realtà si sono effettivamente verificati casi in cui, seppur rari e per ragioni diverse, il minore in affidamento è diventato adottabile.
Si tratta di casi in cui la situazione della famiglia d’origine è stata dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale (per gravi fatti che la rendono totalmente inidonea) oppure per decesso.
Da un lato il bambino in affido si trova nella situazione di “abbandono” che da’ luogo, in modo automatico, alla ricerca della
famiglia adottiva, dall’altro all’interno della famiglia affidataria egli sta godendo di un ambiente familiare di protezione e di cura che rappresenta per lui una fonte di sicurezza e di stabilità.
In questo caso, la ricerca della famiglia adottiva inizia dalla valutazione della famiglia che già accoglie il bambino (se questa
presenta la sua disponibilità), proprio per garantire al minore la persistenza della medesima situazione di vita.
Si tratta della cosiddetta normativa sulla continuità affettiva, che ha cercato di riunire i due percorsi, affido e adozione, qualora il bambino si trovi in una situazione particolare, ovvero: se lasciasse la famiglia affidataria per una nuova famiglia adottiva ciò procurerebbe a lui un danno emotivo ed evolutivo, interrompendo la positività di un’esperienza vitale.
Anche nel caso in cui la condizione di affido termini perché si rende possibile il rientro nella famiglia d’origine oppure per una diversa esperienza di affido, sarebbe proficuo e tutelante che il bambino potesse mantenere, con modalità equilibrate e funzionali a lui, i contatti con coloro che si sono presi cura di lui in precedenza.
Si tratta di garantire e proteggere il diritto del bambino ad avere, per quanto possibile, una minore frammentarietà delle sue esperienze di vita e a non “perdere” le persone, i legami e le relazioni significative per la sua vita, quando esse non sono fonte di fatica ma piuttosto di benessere.
Valeria Auteri
Assistente sociale
Consorzio servizi sociali olgiatese
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