
Ci fa del bene sentire che esiste per ciascuno di noi e in quanto famiglia adottiva un nostro potenziale di resilienza. E’ uno dei messaggi che troviamo tra le parole dell’autrice del libro che vi proponiamo, in grado di farci sollevare lo sguardo e affrontare la realtà delle nostre relazioni educative con una dose generosa di coraggio e speranza.
Una lunga esperienza con adolescenti in adozione internazionale che si sono presentati per problemi di adattamento ai Servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e di Psicologia Clinica è stata l’occasione per mettere a fuoco la relazione genitori adottivi-figli adottati.
Mi sono interessata a questa complessa questione consapevole che la conoscenza dei fattori e delle variabili che determinano le problematiche permette di affrontarle in modo costruttivo.
Per raggiungere tale scopo – in collaborazione con Maria Clotilde Gislon, Maria Villa e l’Istituto per lo Studio e la Ricerca dei Disturbi Psichici (ISeRDiP) di Milano – è stata effettuata un’indagine longitudinale avviata nel 2000 e conclusasi nel 2015. Sono state ricostruite le storie di 55 soggetti in adozione internazionale, adolescenti e giovani adulti con disturbi psicopatologici da gravi a lievi o senza particolari difficoltà nello sviluppo.
L’adozione in sé non è una condizione traumatica, molti adottati hanno un decorso evolutivo nella norma, così come condizioni di disadattamento e psicopatologia sono presenti in qualsiasi situazione umana. Nell’adozione, tuttavia, il rapporto genitore-figlio presenta caratteri peculiari e in molti casi si ritrovano specifiche difficoltà. È importante allora individuare quali siano i fattori di rischio e quali i fattori di protezione che caratterizzano l’azione educativa dei genitori: si tratta di elementi cruciali nel determinare il buon esito del processo adottivo.
Tra le questioni più significative emerse si ritiene fondamentale considerare il trauma e la resilienza.
La ricerca ci ha insegnato che l’esposizione al trauma non è una condizione sufficiente per lo sviluppo di un disturbo psicopatologico. L’entità e gli effetti sono diversi in relazione a vari parametri, quali tempo di esposizione e caratteristiche del trauma, livello di stress, caratteristiche dell’individuo e dell’ambiente ma, soprattutto, oggi sappiamo che è possibile non solo contrastare o superare le conseguenze negative del trauma ma, se adeguatamente affrontata, l’esperienza traumatica può anche divenire un’occasione di apprendimento.
Per resilienza si intende la capacità di superare positivamente circostanze avverse, destabilizzanti, traumatiche, con la possibilità che l’esperienza diventi un’opportunità di crescita emotiva. Tutti gli individui e le famiglie, compresi gli adottati e le famiglie adottive, hanno un potenziale di resilienza che possono esprimere spontaneamente o sviluppare con l’aiuto di altri o con interventi specifici.
Come è possibile sviluppare la resilienza?
E qualora si siano verificati deprivazione, disagio, violenza, come è possibile superare queste difficoltà o eventuali traumaticità?
Ecco alcune indicazioni.
I genitori devono essere consapevoli che, pur nella evidente diversità, esiste una fondamentale parità di bisogni tra loro e il figlio adottato. Ognuno ha un bisogno che può essere soddisfatto dall’altro: il genitore di accudire e il bambino di essere accudito. Il genitore tuttavia ha la duplice funzione: accudire e al contempo dare limiti.
E’ abbastanza frequente che il bambino arrivi da una situazione di grave deprivazione, talora di malattia, allora è facile che i genitori e gli adulti di riferimento abbiano un intenso desiderio di gratificarlo e di colmare le carenze subite. Un tale atteggiamento è senz’altro comprensibile, ma ciò comporta il rischio di sottovalutare che il bambino ha bisogno anche di qualcuno che gli insegni che esistono dei limiti, altrimenti diventa preda di un’insaziabilità che lo porta a continue richieste. Il bisogno di avere dei limiti deve essere considerato, pur modulato dalle altre necessità in quel momento presenti e prevalenti.
L’ambiente emotivo di accoglienza deve fornire una risposta adeguata ai bisogni di accudimento, attaccamento e gratificazione. Nello stesso tempo devono essere garantiti stimoli emancipativi. Per esempio, non cedere alla tentazione di colmare le privazioni che il bambino ha subito in passato con un eccesso di accondiscendenza, attenzioni e doni. Le gratificazioni devono rispondere a bisogni autentici e non avere il significato di compensazioni. Altresì è importante sviluppare la capacità di tollerare le frustrazioni e i limiti. Si tratta di esperienze comuni a tutti i processi di crescita che meritano nell’adozione una particolare attenzione.
Accudimento e dipendenza eccessivi, nel tentativo di compensare eventuali carenze e traumi, rischiano di collocare il bambino in una condizione di passività, di mancanza, come se avesse un deficit.
Situazioni di questo tipo non permettono di vivere il trauma come un evento di fronte al quale è possibile sviluppare le risorse per affrontarlo, elaborarlo e superarlo. La realtà non può essere esente da traumi e l’essenziale è che ciascuna persona impari ad affrontarli.
Ciò che rende il trauma insuperabile è la convinzione che le sue conseguenze siano equivalenti ad un deficit irrimediabile. L’esito più patogeno di questa convinzione è il pensare l’adozione come protesi al deficit e questo può essere anche il vissuto dell’adottato.
“ Io che sono stato adottato percepisco i miei genitori come coloro che intervengono per compensare le conseguenze irreversibili del mio trauma; allora io, adottato, non posso elaborare il trauma e utilizzo solo come protesi le opportunità offerte, che invece potrei sfruttare positivamente per sviluppare una mia autonomia.”
In questi casi l’adozione diviene una protesi irreversibile.
Aiutare il figlio adottato a capire che il trauma può essere affrontato e superato è uno dei compiti più difficili del genitore adottivo.
Un altro atteggiamento che favorisce il superamento del trauma dell’abbandono da parte dei genitori biologici è la consapevolezza del genitore adottivo di avere dei limiti e riconoscere che – come per tutti i genitori – il suo ruolo è transitorio, la sua funzione è limitata nel tempo.
Dandosi questo limite il genitore può permettere all’adottato di riconoscere di avere un passato, di aver avuto un tempo in cui è stato passivo e ha subito difficoltà, disagi e violenza, ma nello stesso tempo ha anche un futuro in cui per lui è possibile essere “attivo”, soggetto del suo desiderio.
D’altro canto se i genitori sono consapevoli di essere in transizione, la loro funzione è quella di sviluppare nel figlio la resilienza e le risorse per condurre un’esistenza indipendente.
Essenzialmente il messaggio è “Ti aiuto a capire che oltre ad un passato, hai un presente e un futuro, cioè che tu puoi divenire, da vittima che ha subito un trauma, agente del tuo destino”.
In sintesi, l’unico messaggio utile è:“Ti aiuto a sviluppare le risorse per affrontare il trauma, creo delle condizioni che ti aiutino a superare l’abbandono. Tu puoi sviluppare risorse per superare le conseguenze di condizioni traumatiche e per affrontare l’esistenza ed io ti posso aiutare in questo”.
In questa dimensione il genitore aiuta il figlio a capire quali sono i suoi bisogni, cosa gli piace fare, cosa deve imparare per realizzare ciò che vuole.
A volte, oltre al genitore, esiste la necessità di un “intermediario” che favorisca il distacco dalla dipendenza e il processo di crescita, ad esempio la figura di un “mentore” che incoraggi la spinta emancipativa, in questo senso hanno un grande valore l’ampliamento della conoscenza, l’esplorazione e l’apprendimento.
Il genitore deve sostenere il figlio nella scoperta delle proprie attitudini e abilità e aiutarlo a sviluppare doti e talenti.
Ciò è alla base del processo di emancipazione che coincide con la fine della funzione dei genitori in quanto tali.
Tale posizione facilita la possibilità di dare la giusta importanza al proprio ruolo e al valore dell’atto adottivo. Inoltre, evita un’indebita attribuzione di valenza salvifica e rispetta il contributo alla crescita emotiva che viene fornito dal figlio stesso e da altre figure o circostanze.
Oltre allo sviluppo della resilienza e all’elaborazione del trauma è necessario tener presente che i genitori adottivi e il figlio adottato possono avere ideali differenti sul mondo.
La nostra convinzione è che noi offriamo a loro un mondo migliore. Ma è proprio così? Come si spiega la nostalgia degli adolescenti adottati di tornare alle origini? Anche coloro che si adattano spesso hanno il desiderio di tornare a vedere dove è avvenuta la loro nascita. Il benessere nostro non è sempre tale per loro, il nostro mondo non è sempre per loro un mondo migliore. Molteplici sono i segnali che vengono dati e che hanno una valenza opposta, segnali che suggeriscono appunto che hanno bisogno di tornare alle loro radici, che hanno nostalgia del luogo di provenienza. Nei casi estremi c’è l’idealizzazione di “una realtà che non c’è”, e la trasformazione in negativo della realtà in cui vivono: “la realtà che c’è”, una variazione del tema più generale che ciò che non c’è può essere oggetto di una idealizzazione, mentre i limiti della realtà concreta non possono essere facilmente negati.
In definitiva va sempre tenuto presente che c’è una differenza tra realtà e rappresentazione della realtà, per cui è essenziale considerare questo problema, che può presentarsi sia in noi che in loro, a prescindere dalla oggettività. Dobbiamo quindi considerare un pregiudizio l’opinione frequente secondo la quale chi adotta offra all’adottato un ambiente familiare migliore di quello di provenienza e, se si tratta di adozione internazionale, anche di un contesto socio-culturale molto più vantaggioso rispetto al Paese d’origine, a maggior ragione se paese sottosviluppato o emergente o in via di sviluppo.
Nella rappresentazione di chi adotta ciò che viene offerto al bambino adottato non può essere a priori considerato migliore di ciò che gli sarebbe stato offerto nel mondo che ha lasciato.
Giuseppina Facchi
Giuseppina Facchi, Maria Clotilde Gislon, Maria Villa
“Adozione oggi – Percorsi di resilienza”
Edizioni Mimesis, 2017
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