
Il primo incontro, i luoghi in cui sono cresciuti, le persone con cui vivevano, gli odori, i suoni, le luci e le consuetudini della loro quotidianità devono essere “fotografati” e conservati nella mente e nel cuore dai genitori. A casa il racconto, la condivisione e i ricordi saranno preziosi per parlare insieme della storia adottiva. Leggi la prima parte dell’articolo.
Com’era l’istituto di mio figlio
L’istituto era molto grande, c’erano ben 200 bambini. La loro età variava dai 7 ai 16 anni. Si trovava in Ucraina, a Donetsk. Adesso con la guerra non c’è più. Avevano un solo refettorio. Appariva sulla sinistra di un lungo lungo corridoio stretto e con finestre collocate in alto che lo illuminavano. Uno spazio molto grande, un enorme salone con l’illuminazione a neon bianca. Si entrava da un’ampia porta a vetri, talvolta aperta, e appena entrati ci si trovava davanti a tanti tavoli in legno con panche sempre in legno e in lontananza la grande cucina a vista con le cuoche intente a lavorare. Poiché era l’unico spazio comune dedicato alla refezione, c’era sempre qualche cuoca o inserviente in modo che i ragazzi potessero accedervi, previa richiesta, per poter bere qualcosa, ma solo i ragazzi “grandi”, come dice mio figlio, quelli come lui potevano andare da soli soltanto in bagno.
L’odore delle polpette me lo porto ancora dentro. Passando lungo il corridoio si sentiva sempre il solito odore, uguale in tutte le ore del giorno. I tavoli erano da 6 e il cibo veniva servito solo talvolta singolarmente al piatto, più spesso in grandi contenitori messi in mezzo al tavolo apparecchiato. Ogni ragazzo si serviva da solo. Tante patate lesse, uova lesse, polpette, frittate varie. Anche adesso, dopo 3 anni, mio figlio apre le uova sode con parsimonia, toglie il rosso dal bianco che mette tutto intorno al piatto, condisce tutto e mangia prima il rosso e poi il bianco, con lentezza, come se fosse un rito. Le polpette proprio non le ha volute neanche più assaggiare.
Vita in orfanatrofio: il refettorio
I ragazzi mangiavano a turno. Mio figlio aveva l’ultimo turno e andava a mangiare circa alle 14.30, mentre la sera mangiavano non più tardi delle 19.00, perché il personale che li assisteva poi se ne andava, c’era il cambio-turno per la notte. Nessuno di loro sapeva che ore fossero in realtà, perché venivano accompagnati sempre da un adulto, in fila. Il salone era piuttosto pulito anche se vecchio e le uniche finestre si trovavano in fondo alla cucina. L’odore sempre forte del cibo si mescola al ricordo dei colori bianchi dell’illuminazione, un salone senza colori né profumi; una luce biancastra che si confondeva con il biancore della neve esterna. Questo spazio-mensa non era in verità vissuto dai ragazzi, era più uno spazio di passaggio, momentaneo per poter mangiare. Bambini soli, sempre da soli anche di fronte ad un piatto di cibo da condividere, soli nella paura che quel cibo non fosse mai sufficiente, ad affrontare la propria crescita, a vedersi cambiare, soli nella propria solitudine. Il cibo, nell’istituto, era “sopravvivenza” e non c’era nessun piacere nel mangiare se non quello di sfamarsi, anche perché era poco, i bambini erano sempre affamati e non avevano una crescita come avrebbero dovuto. Quando ho conosciuto mio figlio vestiva abiti per bambini di 5 anni, ma ne aveva 8.
La zona delle camere da letto
Le camere erano molto grandi con 4-6 letti e si trovavano al primo piano. Avevano grandi tappeti colorati in terra, in stile russo con colori accesi. I letti erano disposti alle pareti, non c’erano mai armadi, perché i vestiti erano in comune fra i bambini. Mio figlio mi ha detto che nella camera dove lui dormiva c’erano dei cassetti dove venivano tenuti i pannolini per un bambino di 6 anni che faceva la pipì a letto. Gli armadi erano tutti in una stanza al piano di sotto e al loro interno i vestiti e le scarpe erano collocati più o meno per età. I lunghi corridoi con una serie infinita di camere avevano due bagni per tutti, maschi e femmine insieme, ma nelle camere i bambini erano divisi, i maschi dalle femmine e anche secondo le fasce d’età. La mattina i bambini andavano in bagno uno ad uno per lavarsi viso e denti, l’unico momento della giornata in cui accadeva, invece la doccia si faceva una volta la settimana per la fascia d’età dei più piccoli.
Mi ricordo che la camera da letto di mio figlio mi fece un effetto piuttosto positivo rispetto al resto dell’istituto. Si vedeva che era uno spazio più curato. Più curato perché non vissuto, qui nessuno poteva entrare durante il giorno e i bambini non sapevano come fossero le altre camere. Solo l’adulto del turno di notte poteva accompagnarli a letto. I letti avevano tutti una coperta e questi tappeti sgargianti con bordature rosse che si trovavano sul pavimento ben nascondevano le mattonelle vecchie e davano un po’ di colore. Una finestra alla parete di fronte alla porta illuminava la stanza e aveva delle lunghe tende bianche. Mio figlio mi ha anche raccontato che nel secondo istituto in cui è stato, (quello che descrivo qui è il terzo orfanotrofio dove ha vissuto e dove noi lo abbiamo incontrato), le camere erano invece “una camerata” con lunghe file di letti l’uno accanto all’altro. L’istituto era però più piccolo e comprendeva una fascia d’età più uniforme, con bambini più piccoli.
Il corridoio, luogo di socializzazione in un istituto in Ucraina
Cosa fondamentale dell’istituto è la neutralità dell’ambiente. Nessuna appartenenza, nessun oggetto di appartenenza, nessun abito di appartenenza, nessuna camera personale… nessun oggetto ti appartiene, mai. Quindi dire che l’ambiente è pulito sembra già qualcosa di positivo… ma considerare che comunque i bagni sono sempre di tutti e sono sempre molto pochi, non è poi un granché visto che nessuno aveva mai un momento per sé. Ho visto ragazzine adolescenti molto molto tristi uscire dalla doccia e rintanarsi velocemente in una “stanza”. Le “stanze” erano luoghi in cui i bambini e i ragazzi, divisi per età, stavano in gruppo la maggior parte della giornata. Sempre il solito lungo corridoio le metteva tutte in comunicazione; il corridoio era l’unico luogo di scambio vero, d’incontro. Nelle stanze l’arredamento era composto da un divano, un tavolo, un porta-scarpe (quando i ragazzi entravano si toglievano sempre le scarpe) e talvolta un vecchio televisore.
I gruppi di ragazzi per stanza erano composti da circa 10 individui, stipati; un odore sempre molto forte proveniva da queste stanze quando aprivano la porta. Non c’erano giochi se non quelli che le coppie adottive portavano e che i bambini comunque condividevano, ma per un periodo breve. Qui i ragazzi guardavano talvolta la TV. Ne abbiamo incontrate tante di storie lungo i corridoi, abbiamo incontrato ragazze che ci hanno chiesto di poter venire via con noi, abbiamo parlato in italiano con alcuni bambini che in estate vengono in Italia e che ci chiedevano se avevamo parenti che li potessero adottare. Tutto in corridoio. Non si può nemmeno lontanamente immaginare quali emozioni viaggiano da una parte all’altra di questi edifici, nei corridoi, nelle stanze dove i ragazzi giocano, leggono, s’incontrano per stare semplicemente insieme. Stare insieme nelle proprie solitudini. Essere in tanti bambini, ma soli, in un orfanotrofio, ognuno che combatte la propria solitudine., disegnavano e ripiegavano il bucato portato dalla lavanderia che poi andava negli armadi comuni. Questo era lo spazio comune della giornata e qui c’era una “maestra”, a parte il fine settimana che il personale diminuiva e imperversava una specie di anarchia. Qui ho conosciuto i bambini dell’istituto che avevano la stessa età di mio figlio e che con lui giocavano. Abbiamo giocato con loro qualche volta, nel corridoio, prendendo pure delle parolacce.
Valeria Vannini
Letto e approvato da mio figlio Andrea.
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