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30 Settembre, 2020

La triade e la storia adottiva

La triade adottiva è rappresentata dai genitori biologici, i genitori adottivi e il figlio
Giuseppina Facchi
Psicologa, psicodiagnosta, psicoterapeuta. Già responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Crema, ha lavorato nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

La triade adottiva è rappresentata dagli attori principali del processo adottivo: i genitori biologici, i genitori adottivi e il figlio, che con l’adozione cessa di essere figlio dei genitori biologici per diventare figlio legittimo dei genitori adottivi. La Dottoressa Giuseppina Facchi ci accompagna a fare chiarezza.

La secretazione dei documenti dell’adozione

In base alle leggi che regolamentano l’adozione nel nostro Paese e in genere nei Paesi occidentali, i genitori biologici nel momento in cui abbandonano il figlio scompaiono dalla scena reale. Con l’adozione, il certificato originale di nascita viene secretato e ne viene emesso un altro che, oltre alla data e al luogo di nascita, contiene il nuovo cognome e in qualche caso anche il nuovo nome, che sostituisce quello di nascita o  si aggiunge ad esso.

Queste pratiche soddisfano l’intento del legislatore secondo  il quale,  secretando il certificato originale di nascita, si perseguirebbe  il maggior interesse per i membri del triangolo dell’adozione.

I figli adottati e i genitori adottivi verrebbero  protetti da ogni interferenza da parte dei genitori biologici o di altre persone e alla famiglia adottiva verrebbe  assicurata una stabilità. Il nuovo certificato di nascita, inoltre,  avrebbe lo scopo di proteggere il bambino dagli effetti stigmatizzanti di una condizione di illegittimità e di offrire ai genitori biologici una nuova chance di vita, svincolata dal passato.

Il segreto dell’adozione

Fino a qualche decennio fa, alla secretazione dei documenti relativi all’adozione si accompagnava anche il segreto da parte dei genitori adottivi sulle origini  del figlio, il quale poteva venire a conoscenza della propria condizione di adottato casualmente o  per scelta degli stessi genitori adottivi che ad un certo punto dell’esperienza genitoriale, decidevano di svelare al figlio la sua condizione di adottivo. Numerosi sono i racconti al riguardo e frequenti le reazioni di sgomento dei figli e le difficoltà a elaborare le proprie vicende di vita.

Le origini  

L’articolo 28 della legge 184 del 1983 recita: Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni.

Oggi questa politica del segreto è aborrita e fin dal momento in cui il figlio arriva in famiglia, anche se molto piccolo, viene indicato ai genitori di raccontare  la storia adottiva svelando precocemente al figlio la sua origine.  Una serie di fattori oggettivi lo rendono necessario.

Innanzitutto, numerosi sono i bambini che provengono dall’adozione internazionale e a volte anche da quella nazionale, che appartengono a etnie diverse dalla nostra, dove quindi è evidente la condizione di adozione. Tanto più è elevata l’età di adozione del bambino, tanto più è presente in lui il ricordo della sua provenienza e della sua storia precedente l’adozione. Non ultimo, il fatto che la ricerca e la clinica sostengano quanto sia più salutare convivere con l’adozione che apprenderlo in modo traumatico ad un certo punto della vita e dove il segreto ha permeato la relazione genitori-figlio adottivo.

Se il passato non viene accettato ed elaborato, ma bensì messo da parte come serie di episodi conclusi e privi di ricadute sull’oggi e domani, con la totale negazione della loro influenza sulla costituzione della personalità, ne deriva anche l’impossibilità dell’uso del trauma per attivare nuove competenze e favorire la costituzione di elementi protettivi.

I genitori biologici

Potremmo dire che oggi, diversamente dal passato, i genitori biologici o la madre di nascita, anche se non realmente presenti, tornano sulla scena in modo perentorio.

Il racconto dell’adozione

Il racconto dell’adozione da parte dei genitori cambia significativamente in relazione all’età del bambino e alla loro consapevolezza sul significato della costruzione della storia adottiva. Oggi può succedere che i genitori vivano questa indicazione, che viene loro fornita dagli operatori dei Servizi, come un compito da svolgere, con il rischio di non calibrare il racconto in relazione alla situazione psicologica ed emotiva loro e del figlio.

Non ci sono regole precise. Per esempio, un bambino di tre/quattro anni,  in relazione alla gravidanza di una qualche amica di famiglia, vedendo il pancione, può fare domande del tipo “Anch’io sono cresciuto nella tua pancia?” E’ questa una buona occasione per rispondere sinceramente: “No”, senza aggiungere in quale altra pancia egli possa essere cresciuto ed attendere che abbia bisogno di ulteriori informazioni, perché se c’è lo spazio per chiedere, prima o poi il bambino arriverà a fare domande più precise.  Quando il bambino è piccolo, i genitori potrebbero anche non usare la parola adozione, perché troppo astratta. Un termine che rappresenta un simbolo sociale  che il bambino non può comprendere fino a quando non sarà in grado di pensare in modo concettuale e cioè all’età di sei/sette anni. Da qui in poi il bambino realizza che qualcosa gli è accaduto e porrà domande relative all’adozione, alla sua nascita, perché egli è stato separato, che cosa è accaduto a sua madre e a suo padre.

Se il processo avviene in modo naturale e se il genitore presterà molta attenzione alle domande e alle curiosità del bambino  sulla propria vita e risponderà in modo veritiero, cioè in un modo comprensibile per quel bambino, senza anticipare informazioni complesse, si eviterà più tardi un momento traumatico nella rivelazione delle proprie origini.

È importante che i genitori siano onesti e rispondano nel modo per loro migliore ai bisogni e alle richieste del figlio. Seguendo una filosofia di apertura nella pratica adottiva, la storia del bambino scelto o altre storie preconfezionate devono lasciare spazio ad un dialogo aperto su cosa e quanto è accaduto. Se i genitori sono imbarazzati ad affrontare la questione, anche il bambino lo sarà. Al contrario, se  sono tranquilli, anche il bambino si sentirà a suo agio. I messaggi impliciti sono più significativi delle parole.

Negli anni i genitori possono imparare ad ascoltare attentamente ciò che il bambino vuole sapere in quel momento e a dare risposte appropriate alla sua età. Le domande a tre anni non sono le stesse a nove e se il bambino comincia a porre interrogativi è necessario fornirgli delle risposte. L’adozione non è così orribile: se il bambino cresce con essa, impara a prendere la vita per quello che è.

E, ancora, è importante che i genitori accettino che il figlio è adottato e riconoscano a se stessi che egli non è figlio biologico e che la loro relazione ha aspetti di divergenza rispetto a quella che caratterizza la famiglia con figli biologici. Essi devono essere sinceri, per esempio rispetto all’impossibilità o alle limitazioni nell’avere un figlio e come lo hanno  adottato.

È una bella storia per l’adottato sapere che i genitori hanno atteso a lungo prima di incontrarlo, ma è importante sappia che anche loro ne avevano bisogno. Come tutte le storie vere, anche la loro è caratterizzata  da gioie e dolori.

Giuseppina Facchi

Psicologa, psicodiagnosta, psicoterapeuta. Già responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Crema, ha lavorato nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

1 commento

  1. Giovanna Bellini

    Per completezza bibliografica, il termine “triade adottiva” è stato coniato da Ugo Uguzzoni e Francesca Siboni, coautori del libro dal titolo “La triade adottiva. Processi di filiazione a affiliazione”, Franco Angeli editore, 2011

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