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10 Dicembre, 2020

L’alunno figlio adottivo

La famiglia adottiva non è diversa dalla pluralità di famiglie, ciascuna con la propria specificità, che oggi caratterizzano la nostra società.
Giuseppina Facchi
Psicologa, psicodiagnosta, psicoterapeuta. Già responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Crema, ha lavorato nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

L’alunno figlio adottivo, che ha vissuto l’abbandono, la deprivazione, un cambiamento più o meno radicale dell’ambiente di vita, solo una o tutte queste esperienze, ha subito un trauma?

Indubbiamente queste sono esperienze traumatiche, ma in ogni storia l’entità del trauma può avere caratteristiche molto diverse e collocarsi lungo un continuum che va da un minimo ad un massimo di gravità, tuttavia, oggi si sa che il trauma può essere affrontato, elaborato e superato. Il trauma ha caratteristiche distruttive solo se il bambino sente di non avere le capacità per superarlo, di non avere la possibilità di una evoluzione in senso emancipativo.

L’adozione non è una condizione di per sé traumatica, ma è indubbio che abbia delle caratteristiche peculiari. Esistono da una parte i fattori di rischio che si differenziano da quelli presenti in ogni condizione evolutiva, in quanto specificamente collegati all’adozione, dall’altra i fattori di protezione che contrastano il rischio. E’ necessario comprendere quale interazione tra di essi può favorire lo sviluppo di risorse, abilità e competenze per un funzionamento emotivo e sociale adeguato nel presente e nel  futuro.

Qual è l’obiettivo primario nello sviluppo di un bambino adottato?

Per il bambino adottato vale l’obiettivo primario dello  sviluppo in genere, e cioè favorire un processo di resilienza in grado di fornire all’individuo strumenti idonei per affrontare eventuali disagi e traumi collegati al passato, così come difficoltà ed eventi problematici nel presente e nel futuro.

Che cosa si intende per resilienza?

Oggi è un termine abusato, ma in ambito psicologico per resilienza si intende la capacità di superare positivamente circostanze avverse, traumatiche destabilizzanti; in certi casi questa esperienza può anche divenire un’occasione di apprendimento e di crescita. Considerando la resilienza come la capacità di adattarsi a situazioni avverse sia biologiche che socio-psicologiche e di sviluppare competenze collegate a risorse interne ed esterne, ne deriva che non si riferisce ad un tratto o ad una sin­gola caratteristica, ma ad un processo dinamico.

Quali sono gli aspetti fondamentali da tener presente nella situazione adottiva, in ambito educativo ?

  • Sicurezza

È essenziale fornire al bambino adottato un ambiente di sicurezza prevalentemente esterno, un’esperienza che permetta lo sviluppo di un sistema di sicurezza prevalentemente interno, sviluppo che accompagna lo svolgersi di un processo emancipativo e la realizzazione di un livello di autonomia necessario per un’esistenza indipendente. Questa è una fondamentale base intellettuale ed emotiva che favorisce la possibilità di vivere la naturalezza nel rapporto con il bambino adottato, contrastando possibili elementi di “artificiosità”, spesso presenti a livello inconsapevole.

Come è possibile ridurre il pericolo della non resilienza in una situazione complessa come può essere quella adottiva?

La più importante linea guida è la necessità di un “ambiente medio prevedibile”. Si intende un ambiente emotivo almeno sufficiente per fornire sia una risposta adeguata ai bisogni di accudimento, dipendenza, attaccamento, gratificazione, sia stimoli emancipativi che aiutino lo sviluppo di risorse e capacità necessarie per condurre un’esistenza soddisfacente, incluse le capacità per affrontare le frustrazioni e i limiti.

Questo richiede “una chiarezza”, quindi “una consapevolezza” rispetto a possibili confusioni. Ricordiamo alcuni aspetti  tra i più importanti.

  • La consapevolezza che esiste una fondamentale parità di bisogni tra genitori e figlio adottato, pur nella  diversità dei bisogni di ognuno. Parità nel senso che ognuno ha un bisogno che può essere soddisfatto dall’altro: il genitore di accudire e il bambino di essere accudito.
  • La consapevolezza che il trauma non è un deficit e l’adozione non è una “protesi” che compensa un “deficit”. Condizioni “difficili” quali deprivazione, difficoltà, disagio, violenza, anche rilevanti, non creano un deficit, una mancanza a livello della personalità. Se il trauma viene percepito come una mancanza, l’adozione viene intesa come una compensazione ad un deficit, “protesi” a qualcosa che manca. Questo non permette di vivere il trauma come un evento di fronte al quale è possibile sviluppare le risorse personali per affrontarlo, elaborarlo, superarlo. Solo a queste condizioni anche il trauma dell’abbandono dei genitori biologici è superabile. Questo è uno dei compiti più difficili nell’adozione: aiutare il bambino adottato a capire che il trauma può essere superato. Ciò gli permette di comprendere che ha un passato, tempo in cui è stato passivo, ma anche un presente e un futuro, tempo in cui è per lui possibile essere attivo, soggetto del suo desiderio e agente.

Inoltre è importante aiutare a capire che la realtà non può essere esente da traumi: l’essenziale è imparare ad affrontarli.

  • Essere consapevoli del pericolo di favorire una insaziabilità. E’ importante dare al bambino le cose che gli servono e non il superfluo. Se vengono date cose che “non servono” la conseguenza è l’insaziabilità, cioè la difficoltà a darsi dei limiti. Il messaggio del limite viene trasmesso solo se il genitore, l’insegnante o l’educatore  sono in grado di dare dei limiti a se stessi. Per esempio, capire  che è importante dare le gratificazioni che rispondono ai bisogni autentici e non siano delle  “compensazioni”.
  • Sviluppare la resilienza e favorire l’emergere delle risorse che il bambino possiede per promuovere un’esistenza indipendente. A questo fine, l’adulto, sia esso genitore o insegnante, aiuta il bambino a capire quali sono i suoi bisogni, cosa gli piace fare e cosa deve imparare e sviluppare per realizzare ciò che vuole raggiungere. Nella stessa ottica, il genitore o insegnante non ritiene che  il bambino adottato debba realizzare le proprie aspettative o ideali, ma che sviluppi la sua individualità e originalità.

Quando il bambino comincia a frequentare una qualsiasi struttura educativa, dal nido ad ogni ordine e grado di scuola, i genitori generalmente comunicano al dirigente, al referente dell’adozione e/o all’insegnante di classe la condizione adottiva  del figlioE’ interesse dell’operatore scolastico, ma anche  del genitore, raggiungere l’obbiettivo di conoscere il bambino al fine di instaurare una proficua collaborazione.

Qual è l’atteggiamento migliore da parte della scuola per favorire un’intesa tra gli interlocutori?

Accogliere, ascoltando con empatia ciò che il genitore racconta della storia adottiva, senza essere intrusivi o curiosi, attenti a non porre domande inopportune o imbarazzanti. Dopo aver raccolto le prime informazioni, senza forzare tempi e modalità, è possibile prevedere altri momenti di incontro con i genitori. Fondamentale è anche la garanzia di riservatezza dei dati e come la scuola intenda garantirla.

Che fare quando il genitore ha difficoltà a comunicare la condizione adottiva del figlio o ad essere chiaro rispetto alla sua storia?

Un operatore scolastico, dirigente, insegnante referente per l’adozione o insegnante di classe, individuato in base al ruolo e alla  sensibilità nell’affrontare la questione, può cercare un colloquio con il genitore/i e con cautela e delicatezza motivare l’utilità di conoscere meglio la situazione del figlio per collaborare con la famiglia alla crescita del bambino, per sostenere la spinta evolutiva, l’ampliamento della conoscenza, l’esplorazione e l’apprendimento.

Se necessario, si può chiedere una consulenza a psicologi o assistenti sociali su come arrivare ad un colloquio con i genitori.

Giuseppina Facchi

Psicologa, psicodiagnosta, psicoterapeuta. Già responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Crema, ha lavorato nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

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