
“Testa pensa dove i piedi stanno” significa che la prima cosa che deve fare l’educatore interculturale è capire dove si trova, perché ogni posto non è uguale all’altro (Cecilia Dotti).
Quali competenze interculturali possono essere utili ai professionisti e alle famiglie nei percorsi di adozione e affido? Questo il tema del seminario “Le competenze interculturali nei percorsi di adozione e affido”, che si è tenuto lunedì 6 marzo negli spazi dell’Università degli Studi di Verona a cura del Centro Studi Interculturali.
L’argomento è stato presentato a più voci, intrecciando diversi punti di vista grazie alle relatrici Roberta Cellore, volontaria dell’associazione ItaliaAdozioni e curatrice del libro “Cara adozione 2”, Cecilia Dotti, educatrice, già referente per le adozioni internazionali per Mehala Adoption ed Emilia Ropa, tutor nel progetto Terreferme.
Durante il seminario, ciascuna relatrice ha presentato il proprio ente di appartenenza e il proprio percorso, per poi rispondere ad alcune domande stimolo poste dalla moderatrice, Elisa Salvadori, e dal direttore del centro Studi interculturali, Professor Portera.
Roberta Cellore ha aperto il seminario con una riflessione su diritto e desiderio, sul legame come “porta aperta” e sottolineando le differenze tra adozione e affido. Ci ha accompagnato attraverso episodi personali e frammenti di storie, raccontando cosa significa essere genitore adottivo di una bambina proveniente da un Paese straniero e “già grande” e presentando alcune competenze interculturali che possono essere messe in campo dai genitori adottivi. Tra queste, la valorizzazione del Paese di nascita e l’apertura verso le famiglie d’origine intese anche come connessione tra passato e presente nelle storie di bambini e bambine. La lettura di alcuni spunti delle lettere contenute nel libro Cara adozione 2 ha arricchito le riflessioni di Cellore, consentendo ai partecipanti di immergersi in parole, narrazioni e sguardi di genitori e figli adottivi.
Da ultimo sono state affrontate alcune riflessioni sul rapporto famiglia-scuola, sottolineando l’importanza della fiducia e dell’accoglienza in entrambi i contesti: “la famiglia adottiva come luogo dell’accoglienza. E’ importante che anche la scuola e la società si facciano accoglienti verso la diversità”.
La seconda relatrice, Cecilia Dotti, ha presentato la sua esperienza come referente per le adozioni internazionali, nata a seguito della scelta di vivere e lavorare tre anni in India con i bambini di strada. Il suo intervento è iniziato con la condivisione di alcune domande che l’hanno guidata nella prima fase del suo periodo in India: con che lenti osservo la realtà che mi circonda? Che idea di educazione ho? Cosa significa “cura” per questo posto? Esiste un solo modo “buono” di essere genitori?
A partire dalle domande stimolo, Dotti ha raccontato come si è modificato il suo pensiero rispetto all’educazione e come, grazie a questa esperienza, abbia potuto sviluppare la sua capacità di decentramento, che ha tradotto nella capacità di saper leggere altri indizi di cura, diversi da quelli a cui siamo abituati. Infine, ha presentato uno strumento narrativo creato appositamente per presentare bambini e bambine e ai (futuri) genitori in attesa del primo incontro. Uno strumento nato da uno sguardo educativo, che va al di là dei report sulla salute o sulle informazioni note, ma mette al centro la persona nella sua interezza ed è capace di connettere il prima e dopo, allargando lo sguardo sulle storie di bambini e bambine nei percorsi di adozione.
L’ultima relatrice, Emilia Ropa, ha presentato il progetto Terreferme, percorsi di seconda accoglienza in affidamento familiare di minorenni migranti soli provenienti da strutture di prima e seconda accoglienza.
Ropa ha sottolineato come in questi percorsi la famiglia venga vista come possibilità e risorsa, e come sia impossibile non considerare quella di origine, che è spesso presente anche se a distanza. Il muoversi tra distanza e vicinanza è una caratteristica del progetto: ci si muove tra adolescenza e adultità, tra regole familiari e spazi di autonomia, tra visioni diverse di “minorenni migranti soli”, tra territori differenti vicini e lontani. In questo continuo movimento, trovare la giusta distanza a volte significa anche stare fermi, mettersi in piedi insieme per costruire progetti di vita. La riflessione finale ha riguardato l’importanza della dimensione di gruppo come interazione tra professionisti, persone e famiglie. In Terreferme si concretizza nel lavoro di rete tra operatori, istituzioni e servizi del territorio, ma anche nella possibilità di stare insieme e creare legami tra ragazzi, e nel fare rete tra famiglie, una vera e propria rete di salvataggio che può fungere da supporto e sostegno perché “l’affido non si fa da soli, quella fatica che ho io magari l’hai già passata tu”.
Elisa M.F. Salvadori
dottoranda e collaboratrice del Centro Studi interculturali, Università degli studi di Verona
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