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27 Ottobre, 2020

Resilienza e adozione

Il termine resilienza oggi è abusato a scapito del suo significato e della sua importanza nello sviluppo, ma anche nella vita delle persone e dell’ambiente sociale.
Giuseppina Facchi
Psicologa, psicodiagnosta, psicoterapeuta. Già responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Crema, ha lavorato nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

“Resilienza” si ritrova in fisica e ingegneria e riguarda il grado in cui una strut­tura metallica è capace di resistere a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione.  Tanto più il materiale è fragile tanto meno è resiliente.

Il vocabolo, traslato  in ambito psicologico, si riferisce alla capacità dell’individuo di superare le avversità e continuare il proprio sviluppo normale, talora  con maggiori risorse.

Resilienti sono  bambini, giovani, adulti che hanno un funzionamento emotivo e sociale adeguato nonostante siano stati esposti a gravi avversità o condizioni di rischio, tali da compromettere il loro adattamento.  Persone che hanno  un’evoluzione favorevole, nonostante abbiano subito una forma di stress che nella popolazione generale comporta un serio rischio di conseguenze sfavorevoli (Rutter M. 1993).

Quando si parla di gravi avversità o condizioni di rischio ci si riferisce sia a traumi o deficit personali, quali problemi di salute psico-fisica riguardanti l’individuo o la situazione familiare (malattie, conflitti tra i genitori, violenza, dipendenza da sostanze), o derivanti da condizioni  socio-ambientali di disoccupazione, povertà, isolamento sociale, conseguenti a vari fattori tra cui la migrazione o minacce vitali, quali catastrofi o guerre.

Allo sviluppo della resilienza concorrono  sia le capacità dell’individuo  sia il contributo del contesto familiare  e socio culturale. Una definizione comprensiva sottolinea il ruolo sia dell’individuo (attributi personali e disposizionali), sia dei fattori familiari, sociali, culturali, relazionali (sistemi di supporto familiare ed ambientali che offrono nuove opportunità e possono  trasformarsi in fattori decisivi di cambiamento), presenti di fronte al rischio.

La resilienza come capacità di adattarsi a situazioni  biologiche e socio-psicologiche avverse e di sviluppare competenze collegate a risorse interne ed esterne, non si riferisce ad un tratto o ad una sin­gola caratteristica, ma ad un processo dinamico.

La resilienza non è un tratto di personalità stabile nel tempo, che l’individuo  può avere o non avere. Essa comprende comportamenti, pensieri e azioni che possono essere appresi e sviluppati dalla maggior parte delle persone. La resilienza è modificabile e può variare nel corso della vita.

In sintesi. Non è una caratteristica, ma piuttosto un proces­so dinamico: far fronte, resistere, integrare e riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni avverse che potrebbero produrre un esito negativo. La resilienza aiuta  a modificare l’impatto di un evento doloroso, traumatico e potenzial­mente destabilizzante attraverso un processo di elaborazione e trasformazione, che favorisce un percorso di apprendimento e di crescita.

Quando nasce l’interesse per la resilienza e perché?

Nel XX secolo la psicologia ha orientato gli studi sul rischio per lo sviluppo di una  psicopatologia e sul deficit.

A partire dagli anni 80  ha cominciato a farsi strada  l’interesse  verso ciò  che  permetteva alle persone a rischio di patologia di sviluppare  un comportamento adattativo e  la ricerca si è posta l’obbiettivo di individuare quali fossero i fattori in grado di contrastare il rischio nelle persone resistenti allo stress o resilienti.

Numerosi studi in questi ultimi decenni hanno  confermato l’esistenza di un potenziale umano che permette di superare positivamente esperienze difficili e traumatiche, contrastando la tesi, per lungo tempo predominante, secondo la quale i fattori di rischio personali e ambientali ed eventi negativi nel corso della vita danno come risultato inevitabile disturbi sia in età infantile che in epoca adulta.

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