
Riflessioni sull’adozione a partire dall’incontro con le coppie
Io osservavo e scrivevo.
Loro si affidavano, sapendo solo il mio nome e poco più, guidati da un desiderio molto più alto e delicato del conoscere il perché di una seconda figura pronta a scrivere in dettaglio ogni loro parola.
L’essere tirocinante è stato ambivalente in modo estremo: estremamente bello e affascinante, ma estremamente forte e duro allo stesso tempo. Così è anche la storia delle coppie che ho incontrato, arrivate in quella stanza dopo ostacoli, sbalzi, decisioni prese e paure ascoltate o messe da parte, dubbi e mani intrecciate che, strette, non lasciavano andare quel desiderio e firmavano documenti in Tribunale.
Dopo la disponibilità all’adozione arrivavano in ambulatorio, entravano nella stanza ed oltre agli occhi della psicologa referente del servizio incontravano anche i miei, mi stringevano la mano e mi lasciavano entrare nella loro storia famigliare, nel loro rapporto di coppia, nei loro ricordi infantili, nelle relazioni con madri e padri.
Io mi ero chiesta il perché, mi ero interrogata su tutto questo valutare, su tutto questo scavare nelle loro teste, nei loro cuori, nei loro ricordi. E poi mi sono resa conto che non ero la sola. Loro si aprivano come girasoli puntando ad un sole più in alto, che andasse ad illuminare quel loro lato genitoriale rimasto incastrato nell’ombra, ma nel frattempo le domande se le facevano.
Perché vengo valutato?
Perché il mio partner deve essere valutato?
Che cos’ho io di diverso da un altro essere umano che desidera essere genitore?
Che coppia siamo noi, per avere bisogno di un consenso, di un’idoneità per incontrare il nostro bambino?
Piano piano ho capito, e tutti loro con me. Non si valuta per dispetto, non si chiede per ostacolare, non si insiste per indagare.
Lo si fa per proteggere, per prevenire, per preparare.
Un bambino in stato di adottabilità non è un bambino e basta.
Ha la sua storia accanto, non alle spalle. La deve ancora affrontare, ogni giorno. E la sua storia quei genitori devono essere pronti ad accoglierla, a contenerla, a non negarla e ad attraversarla con lui.
Un bambino in stato di adottabilità non è un bambino e basta.
Ha un’esperienza di abbandono, di perdita che sempre farà parte di lui. E quei genitori devono aver avuto relazioni sufficientemente positive per far si che abbiano la capacità di incontrare le emozioni e i pensieri negativi, difficili, pesanti del bambino e non scapparne, non sfuggirne, né con il corpo né con la mente.
Le famiglie affidatarie
Oltre alle coppie adottive, c’erano le coppie affidatarie, ovvero quelle coppie che decidono di non essere presenti fisicamente per sempre, ma per un pezzettino, nella vita di qualcuno che invece li terrà nella mente e nel cuore molto più a lungo.
Le coppie affidatarie hanno molto coraggio e decidono di mettersi a disposizione di un bambino per incoraggiarlo e spingerlo in mare aperto verso una terra sicura, accogliente e permanente, sia in caso di ritorno alla famiglia d’origine sia in caso di dichiarata adottabilità. Loro stanno li, in mezzo alle onde, guidati anch’essi da altri naviganti più esperti, e fluttuano tra gli alti e i bassi dei bambini e delle loro famiglie aggrappati al voler garantire a quel minore la migliore modalità di cura, affetto ed educazione possibile in quel momento della sua vita.
I bambini
Infine un cambio di prospettiva.
I bambini in stato di adottabilità. Loro sono in quel mare, ci si ritrovano, e sanno che li aspetta una spiaggia sicura. A volte sanno aggrapparsi con tutte le loro forze ad una famiglia salvagente, a volte invece fanno fatica e in quel mare tendono a restarci. Poi a poco a poco le emozioni si placano, si regolarizzano e le onde non li smuovono più come prima.
Ma ci vuole tanta fatica, tanto lavoro, tanto affetto e tanta cura. Tanto coraggio. E qui le coppie che sono state accompagnate in questo percorso in modo utile, lo tirano fuori.
E quel bambino arriva in terra ferma, e si crogiola al sole, anche se qualche volta ancora piove.
Laura Borello – psicologa
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