
Primo viaggio di famiglia: se non fosse stato per il rischio di veder abbattuto un cavallo a grandezza naturale interamente realizzato in vetro di Murano, il nostro primo viaggio fuori le mura di casa nostra – a Venezia, per l’appunto – può senz’altro definirsi un’operazione riuscita.
Venezia, o cara!
fosse stato
Ebbene sì, non ci eravamo mai avventurati tanto lontano. E prima di decidere ci abbiamo messo diverso tempo: Parigi troppo caotica, Berlino troppo difficile, Firenze poi che facciamo se non possiamo neanche fare un salto agli Uffizi… insomma decidere la meta per il nostro primo viaggio in famiglia che potesse definirsi tale non è stato facile. Venezia in realtà era la città perfetta: qualche ora di treno, l’eccezionalità del paesaggio, l’assenza di macchine, la possibilità di scorrazzare tra calli e campetti, le maschere, le gondole, il mare…
Esame superato a pieni voti per le due bimbe più grandi, che mai come in questa occasione ci sono sembrate così grandi (lo ricordo: Sofia ha quasi nove anni e Anna quasi sette). Le abbiamo persino portate a vedere qualche mostra d’arte senza provocare geremiadi di protesta, ai ristoranti in cui siamo andati non abbiamo lasciato ricordi indelebili del nostro passaggio, e a dispetto dei miei personalissimi timori non ci siamo fatti riconoscere dalle autorità locali per molestie e schiamazzi in luoghi aperti.
Il piccolo di casa
Certo, il piccolo Vladi – 5 anni – è stato un po’ più impegnativo, ma anche per lui si sono registrati notevoli passi avanti. Soprattutto, per me, è stata l’occasione per riflettere su un aspetto importante del suo comportamento. Se nelle occasioni quotidiane tendevo a collocare i suoi capricci e le sue intemperanze nella generica fatica dell’adattamento a una situazione familiare così strutturata, con l’esperienza veneziana sono addivenuta a una nuova e imprevista chiarezza: non è una peste perché è adottato, è una peste perché è proprio una peste di suo. Bella sottigliezza psicologica, direte. E però voi non lo avete guardato negli occhi quando, di fronte al cavallo di Murano in scala uno a uno circondato da un inequivocabile numero di barriere antisfondamento lui mi è consapevolmente e volontariamente sfuggito dalle mani per oltrepassarle con orgogliosa determinazione. E non avete potuto cogliere il lampo di gioia feroce quando ha visto decine di commessi agitarsi in preda a comprensibile panico, e io e suo padre trasfigurati dal pensiero che i nostri quattro reni non sarebbero mai bastati a coprire i costi della frantumazione dell’equino. Né avete potuto assistere allo slalom tra le zampe ingaggiato con il padre per tentare di sfidare fino all’ultimo le leggi fisiche di resistenza dell’immoto animale. Perché se lo aveste visto, non avreste avuto il benché minimo dubbio: ma quali traumi del passato, si stava divertendo un mondo.
Quando finalmente siamo riusciti a riacciuffarlo – sempre perché aveva deciso che si era divertito abbastanza – me lo sono preso, l’ho portato fuori, e dopo averlo confinato in un angolo di venti centimetri quadrati, l’ho sottoposto a un lavaggio del cervello durato almeno dieci minuti d’orologio. Ho preteso che mi promettesse che si sarebbe comportato come il piccolo Lord altrimenti non sarebbe rientrato. Non mi sono lasciata commuovere né dalle suppliche, né dagli sguardi di riprovazione che mi colpivano dalla strada, neanche fossi stata Kappler in persona. Dopo aver ottenuto – a fatica – che pronunciasse quelle quattro parole in forma di solenne giuramento, siamo infine rientrati a vedere il mastro vetraio che soffiava il vetro incandescente. È rimasto seduto immobile a guardare, e alla fine, quando dalla palla di fuoco ha visto uscire un cavallino – questa volta molto più piccolo – ha battuto le mani per la gran sorpresa e di scatto mi ha abbracciato – io che fino a dieci minuti prima ero la sua torturatrice – dicendo a gran voce: “Grazie mamma!”.
Mamma A.
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