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07 Luglio, 2021

Storie di mamme adottive. Viaggio nel Pianeta L.

Dopo aver atteso per otto anni, una coppia parte per la Colombia per incontrare la figlia adottiva.
Paola D'Antonio
Mamma adottiva, medico

Mamme adottive fra Italia e Colombia

Ti sei perso la prima parte? Eccola

C’era anche qualche momento “lieto”: giocava con gli altri bambini, con cui faceva anche“lezione” di italiano con una mamma che, docente universitaria, si improvvisò maestra elementare; imparò a ballare la pizzica da un’altra mamma pugliese; in due pomeriggi e con una sola caduta imparò ad andare in bicicletta.

Ci procurarono un abito tradizionale colombiano, da portare con noi per ricordo: corpetto bianco, grande gonna verde a ruota, “sombrero” con nastri colorati, espadrillas raso terra, perfino un fermaglio per i capelli. Naturalmente si pavoneggiava, ma si arrabbiava anche per la mia incapacità di sistemarle il fermaglio (sempre stata negata con tutti gli ammennicoli per capelli lunghi).

A Bogotà c’è un Centro Italiano con piscina e ristorante; mangiò lì i suoi primi spaghetti, erano collosi come tutta la pasta fuori dall’Italia e non le piacquero granché (ma da allora ne ha mangiati a quintali, chiamando per molto tempo “spaghetti” ogni tipo di pasta).

Certe volte sembrava una bambina serena, giocava, rideva, nuotava, ma io ero già stressata, si vede da qualche video in cui, mentre lei mi gira intorno chiedendomi mille cose, mi rifugio nella lettura di qualunque cosa presentasse delle scritte (avete mai letto l’equivalente della Gazzetta dello sport colombiano, soprattutto se lo sport non vi ha mai interessato? Ecco, ero a quel punto).

L., come probabilmente molti di questi bambini, che di attenzioni ne hanno avute poche e cattive, aveva ed ha tuttora un radar per i momenti di stanchezza, e naturalmente pretendeva la mia massima attenzione proprio quando io ero al limite. Ancora adesso non so se sia stato un bene  aver scelto di soggiornare  in quel residence in cui non dovevamo pensare a fare la spesa, cucinare, fare le pulizie: forse mi sarei distratta un po’ dovendo pensare alle piccole cose di tutti i giorni, o forse lo stress sarebbe stato maggiore, chi può dirlo…

Foto formato tragedia

Dovevamo fare in tutta fretta le ultime pratiche burocratiche per il rientro in Italia, dato che fortunatamente il nostro iter era stato rapidissimo: saremmo stati già di ritorno dopo un solo mese! La abocada ci aveva pregato di uscire al mattino  presto per non fare troppa fila, e noi avevamo diligentemente puntato la sveglia alle 6. Naturalmente avevamo avvisato L. del gran giorno che ci aspettava: dovevamo farle le carte (era il passaporto) per andare finalmente in Italia! La sera prima prima sembrava convinta e soprattutto contenta, ma il mattino dopo… “L., corazoncito (che sarebbe “cuoricino”), alzati, coraggio, su dai, svegliati, dai, facciamo tardi..” e via di questo passo. Ad ogni nostra invocazione si rincantucciava sempre più scura in volto sotto le coperte, poi anche quella volta preferì stare sotto il letto. Andai a fare colazione da sola mentre mio marito provava ad insistere “coi suoi metodi”; la cuoca-cameriera-tuttofare si accorse che ero disperata e si offrì di andare a convincerla, e devo dire che il suo intervento servì (forse perché era un’estranea- oddio, in quei giorni estranei lo eravamo anche noi-, forse per qualcosa di particolare che le disse, non so), e sempre scura in volto si preparò e ci seguì… Non volle che le facessi il “cinturon” con le braccia attorno al corpo mentre eravamo in taxi, come invece aveva sempre chiesto, non si faceva avvicinare, praticamente non disse una parola in tutta la mattina.

La foto sul suo passaporto colombiano,che conserviamo gelosamente (sarà valido fino ai suoi 18 anni) ha una ghigna degna della giornata.

Turisti per caso

Uno degli ultimi giorni prima della partenza per l’Italia decidemmo di fare un po’ i turisti. Che si va a guardare a Bogotà, se avete solo un giorno? Il Museo dell’Oro: vista la sua passione per orecchini e braccialetti ci sembrava che qualcosa avrebbe potuto interessare anche L., ma, come abbiamo sperimentato in più occasioni (come tanti altri genitori)  non c’è niente che i bambini odiano di più dei musei.

Quello che ricordo è una gran corsa per tutte le sale, dove naturalmente si esaltavano le civiltà precolombiane (non ti interessa sapere che il nome della Colombia viene da un italiano? ultimo dei suoi pensieri…), gli unici momenti tranquilli quando abbiamo acquistato qualche ricordo per lei (in Italia sparito dopo pochi mesi…) e quando ci siamo fermati per pranzare con l’ennesima zuppa di pollo e mais (ancora oggi chiede di cucinargliele, ma non mi sono mai venute così, dipenderà dai polli italiani?).

In piazza era pieno di venditori di minuti, no, non è un refuso, vendevano minuti di conversazione col cellulare (foto perché sennò non ci crede nessuno!); inoltre c’era diversi “sciuscià”, sì, proprio lustrascarpe, e qualcuno faceva sia l’uno che l’altro mestiere (puoi lucidare le scarpe della persona a cui hai “noleggiato” il telefono, così non ti scappa!)

E poi, alla fine della gita, rientro al residence in taxi: se siete amanti del brivido non fatevi mancare questa esperienza: i tassisti di Bogotà corrono come forsennati, inchiodano a pochi micron dalla macchina che li precede, ripartono sgommando; ne vedemmo più di uno col motore fumante sul ciglio della strada, ma non abbiamo una foto ricordo perché passammo il tempo a reggerci e a pregare di arrivare sani e salvi…

 Partire è un po’ morire

Dopo una adeguata festa d’addio, con regali per tutti, qualche lacrimuccia e un po’ di invidia da parte di chi aveva avuto un iter molto più lungo del nostro, arrivò il giorno della partenza.

La nostra abocada era una donna previdentissima, le pensava proprio tutte, e quel giorno ci consigliò di essere in aeroporto 4-5 ore prima della partenza, che era prevista per il pomeriggio.

Sveglia all’alba (tanto in Colombia è sempre alle 6), ultimi preparativi, si va.

Lunga coda all’aeroporto, il portatile è bagaglio a mano o no, ultimi acquisti di souvenir; ulteriore attesa di due ore, problemi tecnici, speriamo che l’aereo regga fino in Europa, finalmente a bordo.

L. tutto sommato era stata brava, non si era allontanata da noi, aveva atteso paziente l’imbarco, sembrava tornata quella educata dalle suore.

In aereo dopo poco è notte, si deve dormire, vogliamo dormire…

L. in otto ore da Bogotà a Madrid è riuscita ad andare in bagno almeno una quindicina di volte, non ha chiuso occhio e ovviamente non l’ha fatto chiudere neanche a noi. Arrivati distrutti a Madrid, eravamo in ritardo per l’aereo per Milano, c’era una folla strabocchevole alle immigrazioni, corri, corri, si riesce a prendere anche l’aereo per l’Italia: ce l’abbiamo fatta!

A Milano una coppia di amici ci carica sul loro fuoristrada, dopo altre due ore siamo a casa. E’ ora di cena, altri nostri amici ci hanno fatto trovare una zuppa da riscaldare e la casa decorata di palloncini e pupazzi, in bella mostra c’era anche la bicicletta.

Si va a letto prestissimo, a quella che io chiamo “ora asburgica; L. si chiude in camera e urla “SOLA!”, noi non reagiamo perché stiamo crollando dal sonno.

La mattina dopo arriva fresca come una rosa (facile, sotto i 10 anni!) nel lettone e ci chiede: “Quando si torna in Colombia?”

Da allora, ogni volta che c’è da partire lei fa resistenza, adesso che è grande ha argomenti invece di capricci (ho le gare e mi devo allenare, che noia la campagna, il mare non mi piace…), e questo vale anche per il ritorno (non possiamo rimanere ancora?- naturalmente nel posto dove non sarebbe voluta mai andare…).

Ogni volta ho avuto l’impressione di sradicare una pianta, e ogni volta, come nel proverbio sul partire, è come se la facessi un po’ morire.

SIAMO A CASA, MA IL VIAGGIO NON E’ FINITO:

C’E’ IL PIANETA L. DA ESPLORARE!

Màtame

Una sera tornando dal parco, dopo l’ennesima impuntatura, mi scappò di darle un calcetto sul sedere (per esasperazione, frustrazione, stanchezza… ero mamma 24 ore su 24, non l’avevo sempre desiderato?). La reazione fu immediata e tremenda: pugni, calci, morsi, scarpe lanciate con violenza. La “placcavo” per terra, era rabbiosa di essere immobilizzata (ci riuscivo solo con tutto il mio peso su di lei, 60 chili contro poco più di venti, ma la vincevo di poco), mi prometteva che avrebbe smesso, ma appena liberata SBAM! un’altra scarpa che volava, più o meno in mia direzione. Ad un certo punto mi sono vista persa: brandiva un pesante attaccapanni in ferro battuto per buttarmelo addosso, e ce l’avrebbe anche fatta se non l’avessi  riplaccata per terra: era una furia, viola in volto dallo sforzo, gli occhi iniettati di sangue dalla rabbia, e nella impossibilità di muoversi mi  ha urlato:“màtame (ammazzami), così non avrai più la figlia che desideravi tanto!”.  Ha approfittato del mio attimo di smarrimento per sfuggirmi e rifugiarsi in camera sua, e a questo punto ho deciso che poteva anche distruggere tutto, ma non ce la facevo più, avevo bisogno di un po’ di tregua, e, riuscendo a “rubarle” la chiave, ho chiuso la porta che divide la zona giorno dalla zona notte. L’ho lasciata furiosa e urlante a battere con calci e pugni contro la porta e sono andata in cucina a preparare la cena, per illudermi di fare una cosa “normale”.

Un quarto d’ora dopo mi sono arrischiata a riaprire. Piangeva, non aveva nemmeno rotto niente, aveva solo rovinato  una matita cercando di “scassinare” la porta. Era sfinita, come me. Abbiamo fatto pace? No, abbiamo solo firmato un armistizio. Quando finalmente è tornato mio marito dal lavoro, le abbiamo dato un castigo che sarebbe durato finché non sparivano i segni che mi aveva lasciato con suoi morsi, calci, pugni e scarpate.

Ogni giorno mi chiedeva di vedere i lividi, ma non subito, no, aspettò una settimana: un po’ di castigo, in questo modo, se l’era attribuito da sé.

Cinture ed altre punizioni

Nei primi mesi da mamma ho perso quasi costantemente mezzo chilo a settimana. I vecchi pantaloni taglia 48 in poco tempo mi andavano larghi (anni di diete inutili: bastava avere una figlia!). Un giorno ho preso una cintura per stringerli, lei me l’ha tolta di mano e l’ha fatta schioccare tirandola tra due mani. Poi mi ha spiegato che in Colombia erano quelle le punizioni: colpi di cintura.

Un giorno che eravamo in bagno mi ha fatto notare una sottile cicatrice che ha sul labbro superiore. Una “signora” l’aveva fatta sbattere con la faccia su un lavandino, e un’altra volta le aveva spento una sigaretta sul polso, dove effettivamente c’è una piccola cicatrice circolare. Erano le punizioni di una prima “madre” affidataria, di cui non sapevamo niente, ma i racconti erano plausibili. Un paio di anni dopo mi ha detto che quella cicatrice sul labbro se l’era fatta cadendo dalle scale; in un’altra occasione abbiamo scoperto che una sua sorella adottata in Spagna ha anche lei  una cicatrice circolare sul polso: alla madre adottiva avevano detto che era una “voglia”.

Quando sento che i racconti dei bambini maltrattati possono essere manipolati, ci credo, ma mi pare che facciano molto di più i processi di rimozione.

E cadde come corpo morto cade

Sono medico, ma non avevo mai visto qualcuno svenire. Già svenuto sì, anch’io una volta ero stata sul punto di perdere i sensi, ma nell’atto di svenire mai. Eravamo in bagno, davanti allo specchio, dove passavamo molto tempo, a pensarci bene. Praticamente a sproposito rispetto a quello che stavamo dicendo (che non ricordo affatto) mi dice all’improvviso: “Ti ringrazio per come badi a me (me cuida), ma la mia mamma mi manca troppo”, e sviene, o almeno si abbandona a corpo morto e ad occhi chiusi tra le mie braccia. La prendo in braccio e la porto sul letto, dove si risveglia, naturalmente senza ricordare niente e cambiando discorso. Ma sua madre  si era ammalata pochi mesi dopo la nascita di L. ed era morta quando lei aveva solo 8 mesi, cosa mai poteva ricordare? Mentre io ero, ancora, quella che la “cuidava”: se per strada incontravamo qualcuno di sesso femminile che le andava a genio le saltava in braccio e le chiedeva se voleva essere la sua mamma; le piaceva molto di più lo stile di mia sorella, sempre alla moda, bionda, truccata e tacchi alti (“tacones” che ancora adesso brama), che il mio, eternamente fuori moda, fuori forma, capelli grigi tinti  male e scarpe raso terra…

Ma insomma, se ne è fatta una ragione, le sono toccata io per mamma, ogni tanto, incredibilmente, le vado anche bene così.

Ma io ce l’ho un padre e altri ricordi

E prima o poi doveva anche venir fuori la fatidica domanda: ma perché mi avete portato via dalla Colombia? E noi, come da lezioncina appresa ai tanti corsi: perché avevi bisogno di un papà e di una mamma, il “Bienestar” ha deciso che noi eravamo adatti per te, ora siamo noi i tuoi genitori.

Ma io un papà me lo ricordo, aveva i baffi, e aveva un’altra moglie: perché non sono andata con loro?

E chi glielo dice che il padre non erano nemmeno riusciti a rintracciarlo, quando la nonna l’affidò al Bienestar  ritenendo di essere troppo vecchia per allevare una bambina, e cercarono altri familiari che potessero occuparsene? Una sua sorella, che lei ricorda, aveva sostenuto di non riuscire a mandare a scuola nemmeno i suoi, di bambini; di un’altra sorella L. ricorda che una notte entrò in casa un fidanzato furibondo, sfasciando la porta e con una pistola in mano…

Questa nonna, che nel ricordo di L. era di carnagione più scura di lei, le aveva cucito la gonna per la divisa della scuola, e le faceva mettere i calzini fino al ginocchio e le scarpe nere; e qualche volta era anche andata a trovarla, mentre gli addetti del “Bienestar” le cercavano una famiglia, quindi comunque a lei ci teneva;  ma L. non volle più parlarle: l’aveva già classificata tra le persone che, tanto,  non  sarebbero tornate…

Problemi di pelle – I-

Fin dai primi giorni a casa, ogni giorno, anche decine di volte al giorno, doveva avere una crema idratante con cui si spalmava se poteva tutto il corpo, altrimenti almeno gambe e braccia. Non parliamo poi di quando si faceva la doccia: dall’acqua non sarebbe mai uscita, ma una volta fuori scattava l’urlo di richiesta perentoria “Crema, CREEEMAA!”, e guai a non averla a portata di mano. E altrettanto perentoriamente richiedeva la mia costante presenza vicino a lei, veniva con me anche in bagno e naturalmente dovevo essere con lei anche quando faceva “flores”, come avevamo ribattezzato i bisognini profumati.

Se in strada incontravamo qualcuno, se guardavo un’altra persona, e non sia mai che fosse un bambino e che gli stessi per giunta rivolgendo la parola, mi si lanciava addosso, mi tirava, o aveva qualche richiesta urgente, dalla pipì ad un improvviso dolore, purché la mia attenzione non si distogliesse da lei.

Anche se non gradiva contatti “di pelle”, non le doveva mai mancare il contatto visivo; praticamente l’antitesi dell’autismo.

Problemi di pelle – II-

Dopo la primavera viene l’estate, a noi sembra scontato, ma per mia figlia che aveva vissuto dove le giornate sono di 12 ore come le notti in qualsiasi periodo dell’anno, il prolungarsi delle ore di luce era stranissimo, tranne poi per sfruttarlo a suo vantaggio: dato che si va a letto quando fa buio, si va a letto anche alle 10! Per me fu il periodo più duro, perché mia figlia non si “spegneva” finché non toccava il cuscino, e attendere più di 12 ore era una fatica enorme.

Come che sia, faceva più caldo, lei era abituata al caldo, quello non era certo una novità, come lo era stata la prima neve che aveva toccato (“E’ fredda”!) o i giacconi che aveva dovuto indossare dopo essersi divincolata un bel po’, perché fuori c’era il sole e non era possibile che facesse freddo…

Aveva una marea di vestitini di ogni genere, forma e colore, tutti i primi regali che ha avuto da amici e parenti sono stati capi di abbigliamento, dalle mutandine al cappellino, dai calzini alle sciarpe…

Non c’era versi, però, di farle indossare magliette a maniche corte e di farle togliere le calze lunghe: la sua pelle era troppo scura rispetto agli altri bambini, non voleva che si vedesse, era BRUTTA.

Mi avevano spiegato che in Colombia, come in altri paesi sudamericani, le persone sono giudicate dalla tonalità della pelle, perché come in una serie “Pantone” ci sono tutte le possibili gradazioni, dal bianco cereo (ricordate Ingrid Betancourt, già solo il nome era bianchissimo…) al nero ebano, e più sei scuro più sei in basso nella scala sociale e nella considerazione degli altri.

Mia figlia (e non è orgoglio di mamma ma un dato, ovviamente, obiettivo) è bellissima, ed ha un colore ambrato che molti le invidiano (anche se non le ha evitato da parte dei soliti imbecilli epiteti razzisti…). Con il tempo lo ha capito anche lei, ma quanta pazienza (specie con gli imbecilli…)!

SONO SODDISFAZIONI !

Esta no entiende!- Quien es esta?

I primi giorni, benché avessi studiato spagnolo e con gli adulti non me la cavassi male, spesso non riuscivo a capire L. quando mi chiedeva – sempre perentoriamente – qualcosa. Mi hanno spiegato che non era del tutto mia la colpa: per il suo dialetto ometteva le famose “s” dei plurali, e per un suo difetto di pronuncia le “d” erano un optional, e quindi molte parole risultavano incomprensibili agli stessi colombiani. In queste occasioni si girava dall’altra parte con una smorfia di disapprovazione e diceva “Esta no entiende!” (traduzione libera: ‘sta qua non capisce un tubo!). Ancora più estranea mi sono sentita una notte; dormivamo nel lettone, a casa dei miei che l’avevano appena conosciuta, e la toccai casualmente nel sonno: ancora mezza addormentata disse “Quien es esta?” (sempre traduzione libera: chi è ‘sta rompi?). Solo che stavolta essere appellata “esta” mi ha fatto pensare a quante (nonna, zie , sorelle, mamme affidatarie) l’avevano svegliata prima di me, quante le avevano fatto delle richieste, quante avevano pensato di potersene occupare ma poi l’avevano lasciata andare, quante non l’avevano sopportata, quante l’avevano maltrattata… E io, chi ero?

            Gracias por no ayudarme

Testona come pochi, voleva (e vuole tuttora, ma ora è grande…) fare tutto da sola, vestirsi, lavarsi, giocare, scrivere, leggere (molto poco…), tranne poi fare pasticci o non farcela. Io sono molto “montessoriana”, e la maggior parte delle volte preferivo che sbagliasse da sola per rendersene conto e correggersi o, in caso di successo, per far crescere la sua autostima (ne servivano a badilate, nonostante i mille “yo se!”, “lo so, cosa credi?”, che ho sentito dire anche ad altri bambini colombiani col tono spavaldo di chi deve sopravvivere in un mondo di furbi).

Quando però proprio non riusciva in qualcosa, o quando le pareva che il farle fare da sola implicasse una mia disattenzione nei suoi riguardi (e talora per mio sfinimento non aveva torto), la frase che quasi immediatamente seguiva il “faccio da sola” era “gracias por no ayudarme”. Ecco, questo per dire, come sanno tutti i genitori, che con i figli si sbaglia sempre!

            Intelligenza emotiva

Mia figlia all’inizio se si faceva male non voleva essere consolata, se la castigavamo diceva che non le importava, se mi arrabbiavo con lei non voleva più vedermi e si rifugiava nell’Aventino della sua cameretta (oddio, ero libera non più di 3 minuti).

Per farle capire che ci si può voler bene anche quando si è litigato o ci si è fatti male avevo escogitato piccoli trucchi. Per esempio, quando tornavo da –brevissime – assenze o quando lei tornava da scuola le dicevo : “ Mi sei mancata tanto!”, abbracciandola come se non la vedessi da giorni  (sempre se non scappava via); i primi tempi mi guardava un po’ stranita, poi ha cominciato a dirlo anche lei; molto dopo ha cominciato anche a chiedermi, addirittura, le coccole.

I primi tempi, quando la portavo al parco, bencé ci fossero  diversi bambini che avrebbero giocato volentieri con lei, L. voleva giocare  solo con me, e se si portava qualche gioco “speciale” ci giocava da sola pavoneggiandosi in mezzo agli altri, rifiutandosi di condividerlo. Ho cominciato a scambiare con lei qualsiasi cosa; la sera avevo inventato un gioco in cui io posavo un suo capello sulla mia testa, dopo essermene strappata uno per poggiarlo sulla sua, e le raccontavo che così… ci saremmo scambiate anche i sogni!

Adesso L. presta perfino il suo costume da bagno, e si preoccupa se qualcuno è triste o si fa male, foss’anche in una telenovela.

Per me sono dei successi enormi, sono le più grandi soddisfazioni con lei e nella vita in generale: da piccolo animaletto selvatico che era si è trasformata in una ragazzina socievole e ricercata dagli altri, e pazienza se non sarà mai un ingegnere nucleare (non so nemmeno se arriverà alle superiori…): posso dire che ha un QI elevato nella… intelligenza emotiva!

E ORA… CONSIDERAZIONI SPARSE SULL’ ADOZIONE

Io onestamente non credo a chi dice, di un figlio adottivo: l’ho  amato fin dal primo momento, era proprio destinato a noi…

Intanto perché tante donne non riescono ad amare nemmeno il figlio che partoriscono, anche se l’hanno desiderato tanto (basti pensare agli infanticidi da parte delle mamme  in depressione post partum), in secondo luogo questi bambini sono arrivati a noi per decisione di qualcuno, che sia il Giudice del Tribunale dei minori italiano o i servizi sociali dei Paesi dove andiamo a prenderli: mia figlia avrebbe potuto essere adottata in Svezia da una coppia protestante, in America da una famiglia di mormoni, o in Spagna, come è capitato ad una sua sorellina, in casa di cattolici praticanti… invece l’hanno affidata a noi, agnostici italiani e, diciamolo, anche abbastanza noiosetti, non fosse per qualche zia un po’ estrosa e una nonna che abita in campagna con gattini e galline. Io non posso fare a meno di pensarci, ed è pensando a questo che mi sforzo sempre di rispettare la sua personalità e le sue inclinazioni, benché, se fosse per lei, non farebbe mai i compiti  (in spagnolo si chiamano “deberes”, cioè, ti tocca farli!) e passerebbe le sue giornate con TV, computer  e smartphone.

Non è facile arrivare a decidere di adottare un bambino, tranne forse per chi lo fa come una “missione”; magari sono famiglie che hanno già figli naturali, e si dicono che è egoistico aumentare la popolazione del mondo quando ci sono tanti bambini che aspettano di avere una famiglia. Le loro intenzioni sono molto nobili, ma spesso sono addirittura sconsigliati se non proprio dissuasi dai servizi sociali e dai Tribunali dei Minori, che hanno già un sovraccarico di lavoro dai richiedenti “normali”, cioè senza prole: perché lavorare anche per chi figli ne ha già?

No, noi facciamo parte di quella larga schiera di genitori (o aspiranti tali) che alla adozione ci sono arrivati perché, per i più vari motivi, di figli non ne avevano,o, tragicamente, non ne avevano più. Quindi, è vero che si adotta per dare una famiglia ad un bambino, ma è inutile nascondere che si parte solitamente da una coppia che non ha figli: due mancanze che aspirano a diventare una pienezza.

I genitori adottivi si chiedono sempre: ma un genitore naturale deve far corsi per diventarlo? Una notizia di qualche tempo fa riportava di una coppia, nemmeno 26 anni in due, che ha avuto un bambino. E’ la biologia, bellezza! L’organismo umano è già pronto a quell’età per procreare; sì, certo, si fa educazione sessuale, ma quale genitore insegna al figlio dodicenne ad infilarsi un preservativo o fa assumere alla figlia tredicenne la pillola?

Le leggi biologiche sono uguali per tutti e, se ti decidi tardi,  a quel punto l’invecchiamento o il logoramento degli apparati di riproduzione insieme a stanchezza e stress la fanno da padroni, e non si può più procreare: non te lo avevano forse detto che i figli bisogna farli da giovani?

Invece tu testardo/a, devi studiare, ti devi laureare, ti devi specializzare, devi trovare un lavoro e avere una casa… alla fine (ri)cominci a pensare ad un figlio, ma, bello/a mio/a, sei vecchio/a ormai, i tuoi spermatozoi/ ovuli non vanno più bene, far l’amore diventa un obbligo, il figlio non arriva e tu sei sempre più vecchio e triste e alla fine ti decidi: esiste l’adozione, percorriamo anche questa via!

E allora scopri che devi produrre documenti su documenti, devi fare corsi su corsi, colloqui su colloqui, tra qualche umiliazione e qualche tiepido sorriso di incoraggiamento. E leggi, oh quanto leggi, anche se finora leggevi solo i pettegolezzi o lo sport quando andavi dal parrucchiere, cerchi tutti i libri che parlano di adozione, di madri e padri, di figli grandi e piccoli, di successi e fallimenti, perfino di efferati omicidi, oppure anche di uomini e donne famosi,  adottati da piccoli. Leggi tutto perché vuoi prepararti a tutto, ti alleni mentalmente a vedere in mille pezzi specchi e cristalli, a brandelli le tende, il sofà squartato senza pietà; a non dormire di notte, ad andare a chiedere alla Polizia se hanno trovato un ragazzino così e cosà, fai un pensierino anche a Chi l’ha visto, perché insomma, bisogna essere pronti a tutto, ti hanno spiegato che questi bambini, specie se li adotti grandicelli, si portano dietro i mali del mondo, saranno rabbiosi, violenti, anaffettivi.

Io ai ragazzini già padre e madre a 13 anni auguro ogni bene, ma li hanno preparati a tutto quello che un figlio, prima o poi, può comportare? No di sicuro, la vita è bella e ti sorride, e poi sei giovane, ce la farai ad affrontare tutto, e poi ci sono i nonni, che praticamente hanno solo avuto dei figli tardivi, così badano a figli e nipoti contemporaneamente…

Invece noi siamo già “vecchietti”, le forze e le energie fisiche e mentali cominciano a venir meno, un figlio ti è esploso in casa tutto in una volta, i nonni sono di salute malferma, e tutto ciò a cui ti eri mentalmente preparato non succede così, e tu sei troppo coinvolto emotivamente per reagire come si deve, insegnando amore e tolleranza, sì, proprio “Peace and Love”; la sera tu sei stremato mentre il tuo terremoto casalingo ancora saltella sul letto, e ti chiede attenzioni ma anche di essere lasciato in pace, ti chiede regole, ma anche di essere lasciato libero, ti chiede coccole, ma anche di non essere toccato, tutto insieme, CONTEMPORANEAMENTE.

E gli errori, dove li mettiamo? Lo confesso, ho dato anche delle botte a mia figlia; a mia almeno parziale discolpa posso dire che spesso era l’equivalente di una legittima difesa e, vi posso assicurare, non in senso metaforico… Mia figlia aveva mani come tenaglie, braccia e gambe d’acciaio, denti da latte sì ma di uno squalo, e usava queste armi improprie tutte insieme, alla velocità di una tartaruga ninja. L’appendiabiti (vedi puntata precedente…) forse pesava una ventina di chili, eppure mia figlia, che all’epoca era di poco più pesante, lo aveva quasi sollevato da terra per farmelo cadere addosso, e quando la bloccai disse quella frase tremenda che ancora mi riecheggia nella mente, un po’ in spagnolo un po’ in italiano: uccidimi, così non avrai più la figlia che desideravi…

Ci preparano ai corsi per cose del genere? Quelle che raccontano, nonostante i loro sforzi, le simulazioni, i giochi di ruolo, rimangono cose astratte, non si riescono a comprendere fino in fondo, non si percepiscono fino nel profondo.

Uno scricciolo di bambina, che nella relazione della psicologa colombiana veniva descritta come timida e dalla voce sussurrata, che racchiude in sé un tornado fisico più uno tsunami psicologico, che riesce a ferirti a morte nel tuo punto più debole mentre un’ora prima (ma anche un’ora dopo…) non potevi andare in bagno senza di lei, perché non poteva perderti di vista nemmeno per un minuto, semmai dovessi sparire, anche tu…

Eppure impari ad amarla, a capire la sua rabbia, ad assecondare le sue richieste; qualche volta ti fai picchiare “per gioco”, mentre a volte, dopo che ti ha vista praticamente fuori di te dalla rabbia e dalla frustrazione , è lei che ti chiede di giocare a fare l’arrabbiata “per farti sfogare”.

Impari ad amarli: non c’è scuola, non ci sono corsi, non ci sono maestri, non ci sono lezioni, non ci sono esempi, non ci sono libri, niente, nessuno te lo insegna, ma prima, o poi, impari ad amarli, e cominci a dire: come se l’avessi partorito io.

E allora cominci a gioire, e anche a ridere, e anche a prenderli e prenderti in giro;  l’ironia ancora oggi ci salva da tante piccole tragedie annunciate: in Colombia avevo inventato un ritornello sul suo essere la “señorita no quiero”, e  per quando non si piega nonostante i castighi le racconto la storia della rana e dello scorpione. In fondo io ammiro la sua capacità di non cambiare anche dopo i castighi, è una sorta di “mi spezzo ma non mi piego”, in lei è completamente abolita l’ipocrisia dell’obbedienza, anche se quando vuole sa fare la furbetta.

Tante cose del comportamento di mia figlia mi hanno fatto riflettere sulla mia stessa educazione: sono stata una bambina ubbidiente e studiosa, ma tutto sommato lo facevo per essere amata, era un do ut des; lei no, vuole essere amata incondizionatamente, vuole essere accettata anche se picchia e morde, anche se non fa i compiti, anche se dice sempre di no…

Eppure ancora mi stupisce che ad un certo punto abbia smesso di reagire sempre aggressivamente; ad un certo punto ha cominciato a dire “va bbeneee”,  a fare quello che le si chiedeva, senza però rinunciare a dire no (resta la sua prima risposta ad ogni richiesta): non è obbedienza, è, finalmente, fiducia: fiducia che quello che le si chiede non è per nostro capriccio ma per lei, per il suo domani… E’ perché, semplicemente, le vogliamo bene.

I bambini come mia figlia è questo che non conoscono prima dell’adozione, e che quindi non possono nemmeno desiderare: non che qualcuno si occupi di loro, non che qualcuno procuri loro cibo e vestiti, non una casa e dei giochi: qualcosa l’hanno visto in TV, qualche famiglia affidataria o un orfanatrofio (anche se non sempre) hanno fatto il resto;  ma una mamma ed un papà, che litigano su come educarti, che si inventano mille modi per farti capire un compito difficile, che se sono arrabbiati si vede eccome ma poi ti chiedono anche scusa: quelli no, gli mancavano proprio, sono una novità assoluta, un mistero da scoprire.

Anche loro, anzi, loro soprattutto, non vengono preparati da nessun corso, da nessuna lezione, da nessun maestro, al tornado della vita insieme a mamma e papà.

E alla fine, come nel Qohelet:

“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo…”.

Oggi è il tempo di arrabbiarmi e di ridere, di fulminarla con lo sguardo e di abbracciarla, di dirle “ti voglio bene” e “non ti sopporto più”, di sentirmi dire “vai via” e “torna qua”, “non rompere” ma, soprattutto, “stai con me”.

Paola D’antonio

Tratto da “Ti racconto un viaggio”, AA.VV., 2015, ed. Libri Liberi


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