
L’adattamento reciproco nei primi mesi di adozione
Si tende a dimenticare che cosa sono quei primi mesi di adattamento reciproco: noi a loro e loro a noi. E si tende a farlo per il semplice motivo che è troppo grande lo scarto tra la situazione psicologia dell’aspettativa – questi figli tanto desiderati, sognati, trasfigurati, innalzati a simbolo dell’assoluta e perfetta felicità – e la violenza dell’impatto con la realtà, questi stessi figli in carne ossa: non somiglianti, spesso già grandi, carichi di storia, sofferenti, arrabbiati.
“Come mai non faccio i salti di gioia?” “Perché appena l’ho visto non ho sentito quel tuffo al cuore che mi fa dire: questo è figlio mio?” “Perché non vedo l’ora che si addormenti?” “Cosa sarà di me, della mia vita di coppia?” “E se avessi sbagliato tutto?”. I primi tempi dei genitori adottivi sono scanditi (anche) da questo genere di domande, e come dire, non è esattamente quello che ci si aspettava di provare. Ci si sente parecchio orrendi, talmente imbozzolati nell’egoismo che riesce persino impossibile pensare a come si sentano loro, i nostri nuovi figli. “Chi sono questi?” “Perché non capiscono niente di quello che voglio?” “Perché non mi sanno vestire come vorrei?” “Perché mi danno da mangiare tutte queste cose che mi fanno schifo?” “Perché non sanno capire quando sono triste e quando sono felice?” “Ma chi li conosce questi due e tutta questa altra gente che sorride e bacia e che cosa vogliono da me?”, è probabile che pensino.
La vita quotidiana della nuova famiglia
Le giornate sono tutte un susseguirsi di esperimenti sulla carne viva, nostra e loro. Questo sì, questo no, questo forse, questo boh. Non potrò mai dimenticare una delle nostre prime uscite al parco. Nella mia testa non ci poteva essere nulla di meglio da fare in un pomeriggio di maggio che una bella passeggiata verso il tardo pomeriggio, quando gli altri stanno andando via e non c’è il problema di socializzare in modo coatto alla fila dell’altalena, che è una cosa che ci abbiamo messo tantissimo a imparare e che ancora non è che ci riesca granché bene. Non so cosa ci fosse nella loro, di testa, ma so quello che è successo: appena scesi dalla macchina sono schizzati in tutte le direzioni come fossero le schegge di una bomba a grappolo, e io mi sono resa conto di avere un limite strutturale nel correre in tre direzioni contemporaneamente. Morale ho rischiato l’infarto per riacchiapparli uno ad uno dopo aver perso tra l’altro importanti secondi di tempo per decidere quale sarebbe morto prima se non avessi scelto la strategia giusta nell’inseguimento.
Oppure quella volta che decisi di portare una di loro tre – quella che mi sembrava la più mite – a comprare il pane giù di sotto, proprio all’angolo della strada. La mite bambinetta si piantò dopo circa trenta passi, attaccandosi con tutte le sue forze a un palo della luce, piangendo come se anziché una piccola commissione avessi avuto in programma per lei un sacrificio umano. Chiunque passava gettava su di me sguardi di riprovazione o sibilava frasi del tipo: ma che le avrà fatto? Uno addirittura si attaccò al telefonino, probabilmente per denunciarmi a piede libero.
La trasformazione in due anni
Ecco, tutto questo passa, finisce, si trasforma. Ci vogliono un paio d’anni, ma passa. Così dissi a quella mamma adottiva, e per questo, a distanza, sono stata ringraziata. Si dirà: e tu come hai fatto ad arrivarci da sola? Sarai mica più intelligente di tutti gli altri? No, infatti. Le ho mentito. E l’ho fatto per consolarla, perché la vedevo a pezzi esattamente come ero a pezzi io. E però ho indovinato. Persino sui tempi: due anni, massimo due anni e mezzo. Quella è stata proprio la fortuna del principiante, ma vabbè. Credetemi, credetele.
Una mamma
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