
Un lavoro di grande responsabilità…qual è? Scopriamolo insieme!
Da piccoli, abbiamo sogni molto grandi. La domanda è ricorrente “cosa farai da grande?” e le risposte sono le più disparate: il dottore, l’astronauta, la poliziotta, la regista.
Io, in realtà, volevo fare l’avvocato; l’ho detto per anni e mi sono documentata per bene. Ne ero convinta davvero, finché non sono andata alla presentazione della facoltà di giurisprudenza, dove ho capito (con assoluta certezza) che volevo fare altro. Ne ero talmente sicura che, cocciutamente, ho tirato dritta per la mia strada, incurante della delusione dei professori e delle persone che mi circondavano.
È iniziata in salita insomma, tra frasi del tipo “ma che andrà a fare lì?”, “medico doveva diventare, altroché!”. I miei familiari, che sono pratici, mi hanno detto in maniera schietta “vediamo se sei davvero sicura: ti vai a fare un’estate di gavetta, con turni di ogni tipo e se a settembre sarai ancora convinta, potrai fare il test di ingresso!”. L’ho fatto davvero il test, il settembre successivo, l’ho superato e studiato tre anni, poi altri due.
Insomma, dopo tutto questo preambolo, forse non avete ancora capito che lavoro faccio. Sorrido e penso che, se ci sto girando così intorno, ci sarà un bel “perché!”. Non è facile da spiegare e, a volte, fatico ancora a dirlo ad alta voce. Perché la definizione è sfuggente, le parole secche non bastano e vorrei condividere cosa faccio ogni giorno.
Pronti ad indovinare?
Il mio lavoro ha a che fare con le persone, in varie fasi della loro vita, ma sempre in momenti delicati. È un lavoro su turni, che però – molto spesso – non ha un inizio ed una fine precisi. Il mio telefono è sempre acceso ed ho una reperibilità costante. Uso soprattutto le braccia, in varie posizioni, però servono anche gambe scattanti e una voce calma, ma decisa. A volte indosso tailleur e tacchi, ma dopo qualche ora potreste trovarmi in tuta e calzini con i gommini. Per il mio lavoro ho avuto bisogno di una modifica al cuore: ci siamo esercitati (io e lui) a reggere emozioni forti, ad accettare che alcuni frammenti volassero via, in cambio di uno spazio capace di rigenerarsi sempre ed aprirsi continuamente. Ho imparato (e lo sto facendo ancora) a gestire separazione, frustrazione e rabbia: non solo mie.
Non lavoro da sola, ma con diversi colleghi, con i quali siamo gomito a gomito; in più ce n’è una in particolare che si informa sempre di come sto/stiamo. Nel mio lavoro, alcune volte non ho possibilità di scelta, devo necessariamente fare delle cose, decise da qualcuno che ha un ruolo diverso dal mio. Non posso parlare nel dettaglio con i miei familiari di quello che accade al lavoro, se ricevo delle critiche specifiche non posso rispondere. Inoltre, in alcune circostanze, devo mantenere dei segreti, a volte sono molto pesanti, altre volte fanno quasi ridere, ma per me sono importanti tutti nello stesso modo. Il mio lavoro non si vede, non si potrebbe definire “tangibile”, ma è oggetto di costanti e precise svalutazioni, nonostante ciò non lo cambierei per nulla al mondo.
Vi ho dato molti indizi e scommetto che qualcuno ha già capito. Però voglio esercitarmi a dirlo ad alta voce senza alcuna remora e lo scrivo nero su bianco: sono un’assistente sociale. Ecco l’ho confessato, tutto d’un fiato. Mi guardo intorno, perché di solito quando ne parlo le persone sgranano gli occhi, poi per sdrammatizzare o per davvero dicono “ma quindi sei una di quelle che ruba i bambini?”. Sorrido di nuovo, perché io i bambini li accolgo, mica li frego.
Per fissare bene il concetto rileggo quello che ho scritto sopra, suona più o meno così:
Ogni giorno incontro persone, principalmente bambini, perché lavoro in una comunità di accoglienza dedicata a minori 0/12 anni, anche se in passato abbiamo ospitato anche i nuclei mamma-bambino. Ho recuperato il lavoro con le donne iniziando a lavorare in due centri antiviolenza. Nel tempo libero, se così lo vogliamo chiamare, mi occupo di cultura dell’adozione e dell’affidamento, incontro coppie in momenti diversi della loro storia; scrivo progetti e mi dedico alla formazione: studio, sempre, e a volte cerco di condividere quello che ho imparato con altri professionisti.
Lavoro su turni, ormai dal 2008, diurni – a volte notturni. Ho passato nella comunità che considero la mia “seconda casa”, diversi festivi: natale, epifania, pasqua, ferragosto, senza distinzioni di sorta. Penso ai bambini e alle donne con cui lavoro anche prima di attaccare o dopo che ho staccato dal turno, questo anche grazie al telefono acceso 24h su 24: uno dei piacevoli benefit del ruolo di coordinatrice. Le mie braccia sono molto toniche e allenate, tra gli esercizi quotidiani ci sono: sollevamento neonati; posizione del koala con i bimbi più grandi; abbracci per piccoli, grandi e colleghi. Al pari le gambe servono svelte, per arrivare dove serve: al bagno perché uno gnomo lo sta allagando grazie ad un getto potente del bidet; in centrale di Polizia, perché una donna ha bisogno di supporto. La voce la metto per ultima, perché il non verbale viene sempre prima, ma poi escono anche: una “lavata di testa” ad un’adolescente rientrato troppo tardi; una deposizione come teste in un’aula di Tribunale. Ne consegue che il mio abbigliamento cambia velocemente: sembro quasi un camaleonte!
Giorno dopo giorno
Ogni giorno ho bisogno della mia cassetta degli attrezzi, con gli strumenti necessari per affrontare situazioni diverse. In comunità ho accompagnato bambini e ragazzi al rientro nella famiglia d’origine, ma anche verso forme diverse quali l’affidamento, l’adozione o l’autonomia. Non è sempre facile separarsi da chi incontri tutti i giorni, per settimane, mesi, a volte per anni; ho imparato però a far posto a persone nuove, inizialmente sconosciute e diffidenti. Spesso le persone che incontro, siano bambini, donne, single, coppie, non sono contenti di come sta andando la loro vita o del posto in cui sono. Sono arrabbiati, molto, e mi è capitato (in diverse occasioni) di trovarmi in mezzo ad un furioso lancio di oggetti, dove tutto mi sfiorava senza mai colpirmi; ma era importante che io restassi, anche nella rabbia e dolore del momento, anche senza dire niente.
Non potrei affrontare tutto questo da sola, lo faccio in équipe, con professionisti che hanno formazioni anche diverse dalla mia, ma affini: psicologi, educatori, OSS, etc. Ma il confronto poi si allarga e mi trovo a parlare con avvocati, medici, pediatri, insegnanti, giudici e la lista sarebbe ancora molto lunga. Per la complessità di quello che sperimento ogni giorno, ho a disposizione (insieme ai colleghi) un supervisore, che cerca di comprendere il nostro stato d’animo e le dinamiche che più ci toccano, aiutandoci a guardare le situazioni sotto più punti di vista.
Nell’esercizio della mia professione, ho diversi tipi di mandato a cui rispondere, quindi mi trovo anche a dover “eseguire” dei compiti demandati, ad esempio, dall’Autorità Giudiziaria. Come quando ho coadiuvato dei prelievi di minore, da casa o da scuola, per procedere poi al collocamento in struttura: non si dorme la notte prima, ve lo garantisco, e nemmeno quelle dopo, spesso. Devo, alle persone che incontro, il massimo rispetto dei loro dati e della loro storia. In più sono tenuta al segreto professionale, perciò non posso divulgare informazioni, nemmeno quando queste mi sarebbero utili per “difendermi” dalle accuse delle persone o di trasmissioni televisive, che – in alcune circostanze – parlano di situazioni che non conoscono nella loro globalità, piantandosi magari con una telecamera fuori dal cancello della comunità, impedendoci di far uscire i bambini anche a giocare in giardino. Tra i segreti che devo mantenere ce ne sono alcuni che richiedono giuramenti solenni, come quando mi viene confidato “lo sai che mi sono fidanzata con E. della classe 2^B?”; altri invece sono più difficili da gestire, a volte mi portano ad abbracciare forte una donna, dicendole “sei stata molto coraggiosa a condividerlo con me, ti ringrazio”.
Insomma il mio lavoro non si vede, non è una buca sul manto stradale che, se si ripara o meno, è sotto gli occhi di tutti, ma in realtà riguarda ogni persona della comunità. Queste situazioni sono meno lontane da noi di quanto pensiamo, io ho scelto di dar loro importanza ogni giorno.
Non so quanti leggeranno questo articolo fino in fondo, ma per quegli eroi che riusciranno nell’impresa, spero arrivi forte il messaggio: prima di puntare il dito, aggredire, svalutare, bisognerebbe soffermarsi a pensare che gli assistenti sociali sono semplicemente persone, che cercano di sostenerne altre, al meglio delle possibilità. Si cerca di salvaguardare il diritto all’autodeterminazione di ognuno, immaginando percorsi creativi, in un clima di sfiducia, carenza di servizi e risorse limitate.
Sono orgogliosa e fiera di essere un’assistente sociale, di aver scelto come luoghi di lavoro la comunità di accoglienza e il centro antiviolenza, di collaborare con ItaliaAdozioni per promuovere una cultura corretta dell’adozione, dell’affidamento e non solo. Prendo in prestito il titolo di un testo meraviglioso, per riassumere il tutto in poche parole:
Brutte storie, tante; bella gente, di più![1]
Silvia Bruffa, assistente sociale
[1] “Brutte storie, bella gente. Incontri ordinari di una professione straordinaria”, G. Mattera, San Paolo Edizioni, 2018.
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