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18 Febbraio, 2023

Vorrei riabbracciare la mia mamma adottiva

Il racconto di una figlia ormai adulta che al viaggio di ritorno nel suo Paese natio preferirebbe riabbracciare la sua mamma.
ItaliaAdozioni
insieme a favore di una migliore cultura dell'Adozione e dell'Affido

Buongiorno, mi piacerebbe raccontare la mia esperienza di adozione per spiegare le scelte per cui non ho sentito l’esigenza in 40 anni, di cercare le mie origini. Perché dopo aver attraversato a due anni l’oceano per arrivare in Italia, non sono ancora tornata.

Piccola anticipazione, non odio il mio Paese d’origine. Anzi ho un gran rispetto dei suoi cittadini e della loro cultura. Forse ho solo bisogno di tempo.

L’essenziale è invisibile agli occhi (A. De Saint-Exupery)

Una domanda che spesso mi veniva posta, dopo aver saputo le mie origini, era perché non fossi ancora ritornata a vedere dove ero nata. Io sono di origine sudamericana e all’età di due anni sono stata adottata. Il mio Paese da allora è l’Italia: parlo e penso in italiano, mangio piatti italiani e amo alcune regioni italiane più delle altre. 

Ho conosciuto persone nate in città del sud Italia, che non sono più tornate a visitare il loro luogo d’origine. Persone che vivendo al nord, si erano create una famiglia e trovato un lavoro. 

Perché nel mio caso doveva essere scontato il mio ritorno al Paese natio? Il mio ritorno alle origini?

Forse la risposta era nei miei tratti somatici: capelli neri corvino, occhi a mandorla e colore caramello della pelle. Ma io non trovavo logico pur avendo origini straniere, tornare in un luogo dove comunque avevo vissuto solo due anni, il mio attaccamento non era poi così forte.

Another day in paradise (P. Collins)

Il concetto di povertà mi aveva spesso molto condizionata. I miei genitori adottivi avevano conosciuti gli anni duri del dopoguerra. Mi raccontavano tante cose di loro, quella necessità di lavorare per poter mangiare. Io appena arrivata in Italia, raccoglievo anche il pane caduto per terra, le prime volte che i miei mi portavano a mangiare fuori in qualche ristorante vicino a casa insieme ai parenti.

Ero consapevole fin da bambina che arrivavo da un Paese cosiddetto “povero”. In classe già alle elementari, durante l’ora di geografia, si parlava dei Paesi del terzo mondo e alcune foto riproducevano volti simili al mio.

Ero consapevole del mio destino, se restavo in un paese dove la povertà era palpabile.

Povertà che, in maniera proporzionale, fin da piccola, già vedevo in Italia per le strade delle grandi città che visitavo insieme ai miei genitori. Mi sentivo in dovere di aiutare con qualche spicciolo la persona seduta sul marciapiede che chiedeva la carità. Questo atteggiamento mi era stato trasmesso da mia mamma. Lei era di religione cattolica e mi ha insegnato ad aiutare il prossimo. Io ho sempre frequentato l’oratorio e seguito il catechismo. Erano cose che facevano tutti i bambini e a me piaceva ritrovare anche la domenica i miei compagni di classe, essendo figlia unica, sentivo l’esigenza di stare in compagnia quando c’era l’occasione.

Per motivi di lavoro i miei passavano poco tempo in casa, durante la settimana e nel pomeriggio andavo da mia zia. Quando la sera tornavo a casa, se la giornata a scuola non era andata bene, mi bastava stare con la mia super mamma a parlare nel suo lettone e dimenticavo tutto. Avevamo un bel rapporto. Lei mi raccontava che aveva sempre desiderato avere una sorella, invece era cresciuta con due fratelli di cui si doveva prendere cura, essendo lei la più grande. Mi raccontava anche della sua povertà, durante il dopoguerra. Spesso mi veniva da piangere, pensando a lei, che era una bambina che non aveva nulla rispetto a me.

Infatti quando mi ricopriva di doni, diceva “voglio che tu abbia quello che io non ho potuto avere”. Entrambe avevamo un passato difficile in comune e poi un riscatto nel trovare una vita dignitosa. 

I miei genitori avevano un azienda artigianale che nel tempo gli aveva permesso di poter vivere con più leggerezza e spensieratezza. Durante i periodi festivi mi portavano in giro per l’Italia a conoscere sempre nuovi posti. Durante i viaggi in pullman andammo anche al sud Italia, ed ero rimasta contrariata a sentire la guida turistica, che ci diceva: “State attenti ai ladri, che non siamo mica al nord!” Mi spiazzava questa velata forma di discriminazione, ero solo una bambina, ma capivo che anche io ero nata dalla parte dell’emisfero considerato per alcuni, quello sbagliato. Perché se nascere al sud Italia era penalizzante, figuriamoci nascere in Sud America!

Stavo crescendo come “figlia” di quella società che guardava in modo diverso le persone che non avevano lo stesso colore chiaro della pelle, oppure le persone che pur essendo italiane parlavano con un accento meridionale. Questa era la società in cui vivevo e da cui col tempo avrei dovuto imparare a difendermi: da una parte c’eravamo “noi” civilizzati, e dall’altra gli “altri” emarginati (spesso io non sapevo in quale categoria mi trovassi, per via dei miei tratti somatici, anche se venivo rassicurata che non ero come “gli altri”)

Il paese è piccolo e la gente mormora: la selezione delle amicizie

Ho sempre evitato di seguire le cosiddette “cattive compagnie”, sapevo che c’erano pericoli e tentazioni ad ogni angolo e non volevo deludere mia mamma. Sapevo anche di avere gli occhi sempre puntati addosso, vivendo in un paesucolo, dove le persone non si facevano mai i fatti loro. Ma ho sempre evitato ciò che non conoscevo, quindi ero davvero una brava ragazza, senza vizi.

Rispetto ad oggi, erano poche le persone straniere, nel paesino in cui vivevo. Quindi io mi ero rassegnata ad essere al centro dell’attenzione. Ascoltavo fin da bambina qualsiasi domanda fatta a mia mamma, sul mio conto e dal tono in cui rispondeva percepivo la gravità di quanto certe persone la irritassero. Quando le domande erano rivolte a me, cercavo di scansarle oppure a mia volta girarle tornando a casa direttamente ai miei genitori. Avevo provato, infatti, a chiedergli se era possibile un giorno lontano (perché nemmeno io ero così convinta) vedere dove ero nata. Le risposte erano quelle più disparate e le più ricorrenti erano: non troveresti nessuno, dobbiamo fare economia, bisogna conoscere le zone più vicine prima di fare lunghi viaggi.  Quest’ultima frase mi aveva colpito e mi ero impegnata a conoscere prima le zone in cui ero cresciuta. Poi mi sono spinta fuori dall’Italia, verso l’Europa. Avrei potuto chiedere di tornare a vedere dove ero nata, quando una volta diventata ragazza era evidente che potevamo economicamente permettercelo. Ma sapevo anche che era una domanda che metteva in dubbio il ruolo che loro avevano scelto per me. Forse si sentivano esclusi da un passato a loro sconosciuto e che per certi versi nemmeno io ricordavo.

Magari un giorno in cui, non avrei avuto più bisogno della loro approvazione, lo avrei fatto, quel viaggio, ma non l’avrei messo al primo posto, ne tra le mie priorità. Intanto avevo girato e visto posti molto belli, non ero ancora pronta a conoscere la povertà che mi aveva portato a finire in un orfanotrofio.  Più prendevo consapevolezza delle realtà fuori dal cerchio sicuro della mia famiglia e meno mi allettava attraversare l’oceano per visitare un luogo dove io sarei sicuramente apparsa come una turista, nel momento in cui avessi aperto bocca.

Ricordo che quando ero piccola 4 o 5 anni, vedevamo insieme le diapositive in cui si vedeva il mio orfanotrofio. Le immagini erano scure e di bassa qualità e io provavo ogni volta una tristezza infinita verso quella bambina che appariva infagottata e dell’espressione confusa, mentre passava dalle braccia di diverse persone. Sorridevo solo in una foto in braccio alla suora. No, di certo non sarebbe stato un viaggio piacevole, come quelli che avevo sempre fatto coi miei genitori. C’era una sensazione di tristezza in alcune di quelle immagini. Inoltre avevo saputo durante le scuole elementari che la suora, quella suora missionaria della foto, si era trasferita in Kenya. Anche questo è stato uno dei motivi per cui mi era passata l’idea di andare in Sudamerica dove nessuno forse mi avrebbe riconosciuta.

Un’altra domanda frequente che mi veniva fatta senza tanto tatto, era: “Ma i tuoi genitori, quelli veri (per precisare) sono ancora vivi?” Io ripetevo quello che i miei genitori adottivi mi avevano riferito durante il mio periodo dei “perché”: mia madre, quella che mi aveva dato alla luce, era morta portandomi all’orfanotrofio e di mio padre non si sapeva nulla. E su quest’ultimo genitore avevo iniziato a fantasticare. Me lo immaginavo impegnato a liberare il popolo dai soprusi durante una battaglia. E prima o poi sarebbe venuto a cercarmi. In quel periodo ero solo una bambina con tanta immaginazione e non pensavo che esistessero genitori non bravi.

Amori, amicizie, interessi: IL BILANCIAMENTO E L’ ADATTAMENTO

Durante la mia adolescenza ricordo un susseguirsi di cotte e colpi di fulmini e le uscite in compagnia del mio giro d’amicizie consolidate. Tutte persone buone, ma raramente parlavo del mio Paese d’origine (e dell’adozione), anzi ero attratta da destinazioni più occidentali. Per questo iniziavo contemporaneamente a frequentare gruppo solidali che si prodigavano per aiutare chi dall’altra parte del mondo non se la passava bene. Credo che era il mio modo per compensare la mia personalità frivola e superficiale che sentivo emergere per adattarmi meglio alle amicizie di quel periodo, in cui da ragazza diventavo donna.

Forse anche non aver avuto amicizie sudamericane, durante l’età giovanile, mi ha limitato nel confrontarmi con una cultura e usanze tradizionali che ho sentito poco mie. Ho avvertito da ragazza l’esigenza di parlare spagnolo, la lingua del mio Paese natio, solo per seguire la moda del momento. Difatti questo mi aiutava a capire  meglio le canzoni hit di quegli anni in cui la musica latinoamericana imperversava nelle discoteche.

Tutto questo accadeva prima di sposarmi e mettere su famiglia. 

Io e i miei occhi scuri siamo diventati grandi insieme (C. Baglioni)

Già in tenera età avevo condiviso l’esperienza del lutto con un paio di amici che avevano perso i loro genitori per incidenti stradali. Mi chiedevo come avrei fatto io senza genitori per la “seconda volta”?!  Questo pensiero mi teneva legata a loro in modo silenzioso e malinconico e il pensiero che attraversando l’oceano, in caso d’incidente aereo non avrei più potuto tornare da loro, mi metteva ansia.

Amavo mia madre all’ennesima potenza e per mio padre avevo quel rispetto che lui pretendeva, senza mai mostrarsi affettuoso, ma tanto era forte la presenza di mia madre, che quell’assenza paterna non mi pareva così negativa.

Pur lui avendo viaggiato da solo per il mondo (mia madre aveva una paura motivata degli aerei), mio padre adottivo non mi aveva mai proposto di andare insieme nel luogo in cui ero nata. Eppure lui era stato in Sudamerica e se non ne era stato affascinato da tornarci, forse nemmeno a me avrebbe fatto così bene ritornarci. Infatti quando c’era qualche documentario in televisione sul mio Paese, lui aveva un espressione infastidita ricordando le zone che anche lui aveva girato. A me vedere i documentari in genere mi annoiava, fin da piccola preferivo vedere brevi filmati dei posti che ricordavo per puntare il dito sullo schermo della TV e gridare entusiasta “io l’ho visto, ero lì anche io!”.

Amori fragili che vanno via (R. Cocciante)

Dopo alcuni incidenti di percorso, in fatto di relazioni sentimentali, ho conosciuto il mio futuro marito una sera d’estate tramite una mia amica che me l’aveva presentato. Ci siamo sposati dopo due anni, io ero felice perché lui era la parte che mi completava: calmo gentile e tranquillo. Io invece ero sempre agitata, con tanta voglia di uscire, girare per le grandi città, conoscere posti nuovi. Un po’ come ero stata abituata fin da piccola.

Dopo qualche mese dal mio matrimonio, la mia famiglia adottiva lentamente si stava sgretolando, mia madre si era ammalata e mio padre era sempre fuori casa, usando scuse poco credibili, negava  sempre di più il suo affetto alla persona più importante della mia vita: mia mamma per l’appunto. Giusto o sbagliato ho passato con lei i suoi ultimi anni, trascurando la nuova famiglia che avevo creato. Non sapevo quanto saremmo state assieme, la malattia era degenerativa. Avevo deciso di ritornare a fare la figlia, a discapito del mio nuovo ruolo di moglie, ma stare accanto a mia mamma era più importante, perché era l’espressione più bella di quello che per me è stata l’esperienza dell’adozione.

Mio marito, in questa situazione non era in grado di starmi vicino a livello morale  e io temevo che come mio padre, mi avrebbe col tempo delusa. Ci separammo senza però fare mai mancare nulla a nostro figlio (arrivato due anni dopo il matrimonio), poiché eravamo rimasti in buoni rapporti.

Col tempo io, rimasi di nuovo senza genitori, prima mia madre e poi mio padre. Quest’ultimo si era risposato appena rimasto vedovo, allontanandosi da noi. Inoltre ritornato nuovamente vedovo della seconda moglie, aveva vissuto i suoi ultimi anni dissipando i beni di famiglia.

Questo tipo di episodi erano all’ordine del giorno nel piccolo paese benestante di provincia in cui vivevamo. Una “normalità” che io ho avuto difficoltà nell’accettare. Prima che mia mamma si ammalasse io consideravo entrambi una coppia perfetta, non conoscevo la doppia vita che invece conduceva “l’altro genitore”.

Adozione fra social e incontri live

Ritornata per certi versi “orfana”, ma adulta e preparata alla vita, avevo deciso di dedicare del tempo a quella parte di me che non avevo preso spesso in considerazione: l’adozione. Era un argomento che fin da giovane si riduceva a qualche breve risposta distratta, quando qualche persona curiosa voleva indagare sul mio passato.

Invece trovai interessante girando per internet, scoprire che c’era molto di più: gruppi sui social di persone adottate come me e desiderose di condividere. Per rompere il ghiaccio decisi di andare ad un incontro. Nel momento in cui vidi volti di persone dai tratti somatici stranieri di diverse nazionalità parlare perfettamente italiano, capii che ero nel posto giusto!

Ero affascinata da questo nuovo mondo, questo incontro rispecchiava le mie aspettative. Improvvisamente mi resi conto che avevo tenuto per troppo tempo in un angolo del mio animo, questa esperienza. Mentre alcuni piangevano parlando della loro testimonianza, io che tra i presenti ero la più grande, decisi che le lacrime sarebbero state le ultime a scendere. Perché fino al momento in cui mia mamma adottiva era con me, la mia esperienza di adozione è stata buona. Ho vissuto anche meglio, di alcuni figli biologici che conoscevo. Le mie amiche invidiavano il rapporto che avevo con mia mamma, la nostra complicità.

Riflettevo e cercavo di giustificare la mia mancanza di interesse verso il mio Paese d’origine, cosa invece comune a molti figli adottivi. Io mi sentivo completa nel mio essere figlia. Infatti durante altri incontri, notai che spesso gli adulti adottivi avevano l’esigenza di trovare i loro familiari biologici. Io che avevo avuto un legame più forte di quello di sangue, con mia mamma adottiva, trovavo insolita questa esigenza di cercare chi non mi conosceva.

Ho sempre avuto tutto qui nel “bel paese”.  Come capita ad ogni persona nel corso della propria vita, ho inceppato su qualche ostacolo, ma a parte il momento iniziale, non mi sono mai persa d’animo. L’ostilità che ho percepito nelle persone estranee quando mi incontravano, l’ho superata permettendo loro di conoscermi, per cambiare idea. Vorrei fosse così per ogni persona che non si sente a casa nel paese in cui vive (ad es. le persone che lasciano i loro familiari per trovare lavoro dall’altra parte del mondo).

La maggior parte dei figli adottati che ho conosciuto ritengono necessario ritrovare le loro origini. Vedere dalle foto che condividono, i loro volti sorridenti mentre abbracciano i loro genitori biologici, mi fa piacere soprattutto se conosco la loro storia travagliata di adozione.

Io invece vorrei solo riabbracciare la mia mamma adottiva mille volte ancora, che insieme a mio figlio, considero il vero legame d’amore che va oltre il tempo. Se sarò stata una buona mamma, lo devo solo ed esclusivamente a lei. ❤️ Ma lascio a mio figlio l’ardua sentenza (lo dico scherzosamente, perché lui è molto comprensivo e paziente con la sua mammina).

Rosa 🌹 una figlia adottiva

P.s.  nel 2022 mi hanno ritrovato i miei due fratelli biologici. Grazie al mio profilo Facebook, creato per parlare di adozione con le persone incontrate durante gli eventi che ho frequentato dal 2019 in avanti. I miei fratelli hanno splendide famiglie e sono felici, (uno dei due è stato adottato come me in Europa): non potevo chiedere di meglio. Ho alzato gli occhi al cielo con un sorriso, ho pensato ad una sola parola: “grazie”, perché in questi ultimi anni, avevo bisogno di una ricarica di energia. Non parlo spesso della mia salute, ma gli anni passano e il mio corpo è stato messo a dura prova. Io continuo a sorridere, che resta secondo me una buona medicina naturale e mi avvio verso i 50 con prudenza.

1 commento

  1. Emilia Rosati

    Rosa grazie! Hai raccontato la tua storia con grande autenticità dando una testimonianza che colpisce al cuore.

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